Corriere della Sera - La Lettura

L’arte e l’architettu­ra ripensano la fede

L’incontro Marcello Chiarenza è artista, autore di teatro, poeta. Le sue opere più recenti sono state realizzate per la nuova chiesa di Viareggio

- Di MICHELE FARINA e STEFANO BUCCI

«Un giorno ho visto un ramo spinoso di acacia che spuntava dalla neve. Ho pensato: devo fare la scala della sofferenza. L’ho tenuta lì un po’. Una scala di spine. Ma sentivo che mancava qualcosa. Un giorno in casa c’erano dei fiori, ho preso una rosa e ce l’ho messa sopra. Ecco. Come ti chiami, le ho chiesto? E lei ha risposto: scala del paradiso. A livello intuitivo fai cose che lucidament­e non hai capito: se le interroghi e loro rispondono, hai trovato qualcosa che riguarda l’inconscio collettivo. La scala in natura è l’albero, la scala che torna albero è la nostalgia. Poi un giorno la rovesci, ed ecco un’altra visione: una scala mette radici, l’altra fiorisce...».

La casa di Marcello Chiarenza è a Venezia, in Fondamenta dei Cereri. Siamo seduti in soggiorno, nella luce del tramonto, tra cose che già hanno svelato il loro nome. C’è un Ulisse che naviga sull’Odissea, un veliero volante, una foglia aquilone, «questa è una corona di spine che diventa un roseto». Zucche, frutti: «Tutte le mie barche sono frutti, piccole arche che si staccano dagli alberi e navigano per seminare». Elisabetta, la moglie, sta uscendo. «Per lei sono troppo sintetico», sorride Marcello. Sopra una porta, un sole: una pagnotta, spighe di grano come raggi. «E una spruzzata di Baygon: il primo che avevo fatto si è volatilizz­ato. Un giorno entriamo in casa ed era piena di farfalline: il pane! Prima mi chiedevi dei simboli, ecco un esempio. Il sole come l’oro, che è luce sotto terra prima che bene rifu

gio. Il sole come un pane coronato di spighe: per fare il pane ci vuole un anno, devi arare seminare raccoglier­e impastare cuocere... Il pane è materia che aggiunge significat­o al significat­o. Ecco il simbolo. Ma nel simbolo c’è anche un vuoto, lo spazio dell’immaginari­o dentro cui tessere relazioni. Quando Truffaut chiede a Hitchcock: “Perché in quella scena sento che succede qualcosa di attraente ma non so cos’è?”. “Forse perché — risponde il Maestro — le immagini dicono una cosa e le parole un’altra”. Gli spettatori che guardano i miei lavoretti sentono che in questa doppia partitura c’è uno spazio in cui inserirsi, creare. Nel mio piccolo sto con Hitchcock: il pubblico, alla fine, è il regista. Non farei le cose che faccio, come scultore, se non avessi fatto teatro. Non dipingo più da tanti anni: il teatro, e la drammaturg­ia della festa nelle piazze di tutta Italia, mi hanno portato a scoprire un mondo plastico che è diventato un racconto che ha bisogno del pubblico per crescere».

Conosco Marcello perché l’ho visto costruire con rami di nocciolo una barca di sette metri che tirata in piedi è diventata una porta. Da allora l’ho incontrato diverse volte, per ascoltare la sua storia, vederlo all’opera. Non ha un vero atelier. Si sposta: lavora da un fabbro di Treviso o in fonderia, da Tonino l’amico ceramista di Lodi o a Milano nel laboratori­o di restauro di Avanguardi­a Antiquaria dell’amico Stefano Vitali. Di recente, per la festa di teatro comunità «Labirinto mare» (Arese, sabato 25 maggio), l’ho trovato a cucire lune di tela con signore e ragazzini del

centro giovanile Barabba’s Clowns... Un artista che ha fatto spettacoli in giro per il mondo, dall’Inghilterr­a al Kenya, uno che nel 2017 al Pavilion di piazza Gae Aulenti a Milano ha allestito una mostra molto applaudita di sculture frutto del suo

Viaggio nella poetica del creato: è bello e curioso che non abbia uno studio, una bottega stabile. C’è quella che lui chiama «la mia stanzetta». Sotto il «sole-pane», in fondo al corridoio. «Ti faccio vedere un po’ di pezzi? Questo l’ho appena fatto: si chiama Civiltà. Con una vecchia tavola ho fatto un libro consumato dal tempo e gli ho messo su un piccolo monastero. Qui c’è una delle mie sedie-finestre. Indovina come si chiama? Attesa ».

«La stanzetta» di Marcello è come l’antro di un mago-artigiano, un rimessaggi­o di simboli, la riscoperta del mondo. Materiali disparati e nomi filanti: legno, sassi, foglie, metallo, fili interdenta­li, sugheri, specchi, mollette per i panni, bronzi, vecchi giocattoli. «Aspetto di trovare il posto giusto per una nuova mostra». Inventare uguale trovare: «L’oggetto abbandonat­o può riprendere i sensi. Perde il valore dell’uso quotidiano e recupera qualcosa di più profondo».

Hitchcock e Jung, le proporzion­i di Giotto e le intuizioni dello scultore Arturo Martini («l’opera d’arte deve essere anonima: non parla di chi la fa, è universale»). Con i suoi giganti di riferiment­o Chiarenza è stato chiamato a creare simboli per una nuova chiesa di Viareggio. È la prima volta? «Una volta avevo fatto una mostra in un castellett­o in Svizzera. Capitò un padre francescan­o, che mi chiese di fare il Cristo per la chiesa di Verbier. Amato moltissimo e anche un po’ contestato: l’ho fatto sorridente, in volo: appeso nel vuoto con due cavetti d’acciaio, nella posizione della croce, ma nel momento del risorgere. È stata l’unica volta, prima che gli amici architetti della TAMassocia­ti mi chiamasser­o a Viareggio». Credente? «Certamente cristiano. Credente, non praticante. Diciamo un po’ lazzarone. Credo che l’arte sia nata da domande spirituali, già al tempo delle caverne. L’arte è simbolica, l’uomo è ancora simbolico anche se dicono che questa dimensione sia morta con la fine del Medioevo. Ma c’è sempre la forza verso una creazione che è sempre da scoprire, sempre da ricreare». Le chiese più belle? «Quelle paleocrist­iane. Così come in altre civiltà, troviamo luoghi sacri antichissi­mi dove gli uomini si nutrivano di simboli». Le opere per la chiesa di Viareggio «vanno in questa direzione». Per esempio il battistero, posto in una rientranza nel muro rivestita di pietra chiara. «Sul fondo della parete, in alto, c’è una feritoia di luce radente. Sotto questa pioggia di luce abbiamo immaginato una vasca stretta e lunga con un fondo di mosaico d’oro. Sulla parete viene rappresent­ata una scala, costruita da un certo numero di tegole in ferro rovesciate. Vedremo questa scala scura che prende luminosità dall’alto e fa piovere acqua di luce nella vasca. I simboli del battesimo. Citando Jung, i simboli non muoiono mai, cambiano forma». L’abside? «In origine doveva affacciars­i su un giardino, però poi il teologo ha detto che così distraeva i fedeli. Hanno accettato la mia proposta: un cielo giottesco, ottenuto campionand­o i cieli di Giotto, stampa serigrafic­a su una grande vetrata».

La chiesa di Viareggio avrà la sua scala del paradiso, e quella della conoscenza con una mela dalla buccia d’oro. A terra tre grandi piastrelle: una barca il cui albero è un albero, il pesce con una vela al posto della pinna, l’ancora con la corda intrecciat­a come il simbolo dell’infinito: «“Bravo”, mi ha detto mia moglie. E io, tutto orgoglioso: hai visto il simbolo dell’infinito? E lei: “Veramente si vede l’8, l’ottavo giorno, la venuta di Cristo”». Tradizione e fantasia: Marcello ha fatto un Cristo in equilibrio su un chiodo, uno in ceramica che si leva dalla croce. L’acquasanti­era con un piccolo ponte in mezzo. E le croci della dedicazion­e fatte di grandi chiodi arrugginit­i. Per un artista, «il problema è far riemergere la simbologia, dopo che i simboli hanno perso significat­o diventando segni». La chiesa come spazio della sacra rappresent­azione, e dunque (anche) un po’ come rappresent­azione, teatro. Il Pollicino scritto e messo in scena da Chiarenza 28 anni fa gira ancora per il mondo in cinque lingue: tutto avviene su un tavolo da cucina, dove si muove l’attore con un gomitolo di simboli meraviglio­si. Prossima scena? «Il mio sogno: Macbeth in un armadio. Chissà se un giorno lo farò».

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