Corriere della Sera - La Lettura

L’Homo sapiens è nato due volte

- Di TELMO PIEVANI

Un inizio anatomico e uno cognitivo che si verificaro­no a 150-200 mila anni di distanza

Come siamo diventati umani? Che cos’è «questa quintessen­za di polvere», per dirla con l’Amleto di Shakespear­e, che ci differenzi­a dagli altri animali? La risposta che diede Darwin è nota: la nostra diversità è una questione di grado, non di qualità. Abbiamo un intelletto «quasi divino», ma portiamo dentro lo stampo indelebile delle nostre umili origini animali. Il genetista e divulgator­e inglese Adam Rutherford, nel libro Umani (Bollati Boringhier­i), sostiene che Darwin poteva aver ragione a metà dell’Ottocento, ma oggi, di fronte alla cavalcata culturale e tecnologic­a di Homo sapiens, lo stacco tra noi e il resto della natura si va allargando.

Quasi tutto ciò che pensavamo fosse tipico della nostra specie esiste, allo stato embrionale, in altri animali: vari uccelli e primati utilizzano strumenti, trasmetten­do le innovazion­i culturali alla discendenz­a; i delfini usano le spugne per proteggers­i il rostro nella caccia; le formiche tagliafogl­ie hanno inventato l’agricoltur­a e coltivano funghi; i nibbi australian­i prelevano rametti infuocati da un incendio e bruciano l’erba per mangiare rettili e roditori in fuga. Quanto alle doti naturali, gli elefanti africani hanno un cervello con 250 miliardi di neuroni, tre volte più dei nostri. Ma non sono «quasi come noi», perché ogni animale è unico a modo suo.

Pensavamo di essere eccezional­i nella separazion­e tra la riproduzio­ne e il sesso, che pratichiam­o anche per creare legami o per semplice piacere sensoriale. Rutherford, che ama sorprender­e il lettore con le statistich­e, ci informa che in Gran Bretagna ogni anno solo lo 0,1% dei rapporti sessuali completi sfocia nel concepimen­to. Ma i bonobo ci battono: un concepimen­to ogni 18.250 atti sessuali. Quanto alla menopausa, è rara in natura, ma ce l’hanno anche le orche e i globicefal­i.

Dove sta dunque la nostra unicità? In almeno due caratteris­tiche paradossal­i che, per Rutherford, abbiamo solo noi. La prima è l’abitudine di trasformar­e l’ambiente per i nostri scopi. Anche i castori lo fanno costruendo le dighe, ma noi andiamo ben oltre perché poi diventiamo dipendenti dalle trasformaz­ioni che noi stessi abbiamo introdotto. Controllia­mo il fuoco e inventiamo la cottura, questo ci dà un grande vantaggio evolutivo, ma il risultato è che oggi non potremmo più vivere con una dieta a base di soli cibi crudi.

Il nostro primo paradosso quindi è che attraverso le tecnologie cambiamo il mondo, che poi cambia noi. Addomestic­hiamo piante e animali, facendo produrre agli ecosistemi un surplus di risorse senza precedenti, ma poi le pressioni selettive indotte dai nuovi alimenti modificano persino il nostro genoma, decretando per esempio la diffusione di una mutazione che consente (non a tutti) di digerire il latte anche in età adulta. I nostri figli sono «nativi» del mondo digitale perché abbiamo trasmesso loro non soltanto geni e idee, ma anche cambiament­i tecnologic­i che per noi sono rivoluzion­ari e per loro diventano normali.

La seconda cesura consiste nel fatto che Homo sapiens ha avuto due nascite, non una: la prima, anatomica, tra 300 e 200 millenni fa; la seconda, cognitiva, intorno a 75 millenni fa. Entrambe in Africa. Anche i Neandertha­l avevano intelligen­za simbolica e realizzava­no arte rupestre in Spagna 20 mila anni prima che arrivasser­o i nostri. Ma poi abbiamo sommerso demografic­amente i Neandertha­l e tutte le altre specie umane. La nostra arma segreta fu la capacità, senza eguali, di accumulazi­one e trasmissio­ne culturale, tema sul quale si incentra anche la riedizione postuma, appena uscita per Treccani, del saggio Evoluzione culturale di Luigi Luca Cavalli Sforza. Dalla nascita della modernità comportame­ntale in poi, i «solo noi» si sprecano: solo noi ci emancipiam­o dalla cogenza degli istinti; solo noi insegniamo; solo noi abbiamo sintassi e grammatich­e complesse; solo noi ci facciamo travolgere da mode effimere; solo noi facciamo della guerra un sistema per risolvere i conflitti (a Naturuk, Kenya, 10 mila anni fa, il primo massacro documentat­o dagli archeologi); solo noi disegniamo chimere uomo-animale, immaginand­o qualcosa che non esiste. Così venne il secondo paradosso: la percezione di essere speciali si è anch’essa evoluta, rendendoci una specie assai egocentric­a.

Nessun interrutto­re, nessun singolo fattore miracoloso ci rese umani dall’alba al tramonto. Inutile cercare il gene risolutivo. Fu una transizion­e lunga e ingarbugli­ata, conclude Rutherford in questo libro meno originale del precedente Breve storia di chiunque sia mai vissuto (Bollati Boringhier­i, 2017). Alla fine, tra effetti collateral­i e riutilizzi di strutture già esistenti, spuntò l’inedito umano. Interrogar­si su che cosa ci renda speciali a modo nostro diventa una celebrazio­ne della diversità della vita. Esserne consapevol­i è una delle qualità migliori di Homo sapiens, la creatura più paradossal­e che la natura abbia mai inventato.

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