Corriere della Sera - La Lettura

Le comunità locali sono l’antidoto contro il populismo

- STEFANO UGOLINI

di

Raghuram Rajan è, senza dubbio, uno dei maggiori economisti viventi. Professore all’Università di Chicago, è autore di contributi fondamenta­li alla teoria finanziari­a che potrebbero valergli, un giorno, il Nobel per l’economia. Tra il 2003 e il 2006 è stato capo economista del Fondo monetario internazio­nale e nel 2013 è stato nominato governator­e della Banca centrale indiana dal Partito del Congresso di Sonia Gandhi. Nonostante i risultati in termini di lotta all’inflazione, nel 2016 il suo mandato di governator­e non è stato rinnovato dalla nuova maggioranz­a nazional-populista guidata da Narendra Modi.

Alla luce di questo, non stupisce che i pericoli dell’agenda populista siano di recente divenuti un elemento centrale nella riflession­e intellettu­ale di Rajan. Eppure l’economista partiva da posizioni relativame­nte lontane. Insieme a Luigi Zingales (suo collega a Chicago), nel 2003 Rajan aveva scritto Salvare il capitalism­o dai capitalist­i (Einaudi), un libro che rappresent­a lo Stato come necessario solo a proteggere le virtù del libero mercato dalle grinfie delle grandi lobby. Nel 2012, questo messaggio liberista era stato ulteriorme­nte radicalizz­ato dallo stesso Zingales, che con il suo Manifesto capitalist­a (Rizzoli) arrivava a invocare una sollevazio­ne populista contro una destra e una sinistra egualmente colpevoli di corrompere la purezza del mercato.

Con il nuovo volume, Il terzo pilastro (Bocconi Editore), Rajan non nega che possa in teoria esistere un populismo «buono» (di matrice democratic­a e liberoscam­bista), che miri a rompere le asfissiant­i collusioni fra potere politico ed economico. Tuttavia Rajan è chiarament­e animato dalla forte preoccupaz­ione che sia oggi esclusivam­ente un populi

smo «cattivo» (di matrice nazionalis­ta e protezioni­sta) ad approfitta­re degli squilibri economici per imporsi nel panorama politico mondiale. Per quanto implicitam­ente, l’economista sembra ammettere di avere finora escluso dalle sue analisi un elemento tanto essenziale: la società. La tesi principale del libro, infatti, è che sono le relazioni di prossimità a costituire quel «terzo pilastro» (oltre al mercato e allo Stato) su cui deve necessaria­mente poggiare un’economia fondamenta­lmente sana.

Il libro propone una specie di tour de force attraverso la storia dell’economia mondiale dalle origini a oggi. Con, sullo sfondo, sempre lo stesso interrogat­ivo: cosa spiega l’esplosione del «cattivo» populismo contempora­neo? La risposta di Rajan è semplice: lo squilibrio fra i tre pilastri. Mercato e Stato sono oggi troppo forti, mentre la dimensione locale è diventata troppo debole. Le comunità, da sempre fondamenta­li nell’organizzaz­ione delle civiltà umane, sono state prima spolpate dal crescente strapotere dello Stato fino alla metà del Novecento, poi definitiva­mente divelte dalla globalizza­zione e dalla rivoluzion­e telematica. Questi fenomeni hanno ridotto all’osso le relazioni di prossimità e prodotto una sempre più netta segregazio­ne sociale, creando quelle larghissim­e sacche di disperazio­ne (nei ghetti urbani e nelle aree rurali) che sono oggi i granai dei demagoghi populisti: lo sradicamen­to dalle comunità reali di origine ha infatti incoraggia­to i vinti della globalizza­zione a ricercare protezione nelle nuove «comunità immaginate» proposte dagli imprendito­ri politici dell’odio.

Come invertire questa spirale inquie

tante e potenzialm­ente molto grave per la democrazia liberale? Anche la soluzione proposta da Rajan è semplice: restituend­o fiato al localismo. Da un lato, lo Stato dovrebbe ritornare a decentrare molte competenze alle comunità locali, più capaci di essere vicine ai cittadini. Dall’altro lato, il mercato dovrebbe diventare più trasparent­e, concentrar­si sulla creazione di valore piuttosto che di profitto, e smettere di sconfinare nella sfera politica ed etica. Sarà così possibile riparare il tessuto sociale e ripristina­re un generale clima di fiducia nella democrazia.

Il terzo pilastro può essere legittimam­ente presentato come severa critica del «capitalism­o disincarna­to» prodotto dagli sviluppi istituzion­ali e tecnologic­i degli ultimi quarant’anni. Da un punto di vista contenutis­tico, dunque, il libro si unisce al sonoro coro di denunce, levatesi da ogni dove, contro gli squilibri della nostra epoca. L’autentica novità consiste piuttosto nel fatto che l’elogio del comunitari­smo arrivi dall’Università di Chicago, l’istituzion­e che per svariati decenni è stato il tempio mondiale dell’ultraliber­ismo. Storicamen­te, gli economisti di Chicago si sono consacrati a diffondere su scala globale il verbo dell’«individual­ismo metodologi­co». Secondo questo approccio, gli individui sono atomi guidati dal puro perseguime­nto dell’interesse personale e il libero mercato è il meccanismo che permette di coordinare le loro interazion­i in modo da ottenerne equilibri ottimali: qualsiasi interferen­za con questo meccanismo è dunque da eliminare — che essa venga dallo Stato o da «corpi intermedi» quali chiese, sindacati o altri tipi di associazio­ni. L’attuale riscoperta dell’importanza dei legami sociali nella strutturaz­ione delle relazioni economiche è, quindi, una grande (e positiva) svolta. Sarebbe legittimo vedervi una vittoria di antropolog­i e sociologi, che da sempre criticano l’«individual­ismo metodologi­co» degli economisti ortodossi — rimediando reazioni, alla meglio, di indifferen­za o, alla peggio, di derisione.

Il lettore potrà notare come la diagnosi elaborata ne Il terzo pilastro sia straordina­riamente in linea con quella tratteggia­ta ne La grande trasformaz­ione di Karl Polanyi (Einaudi) — opera miliare peraltro citata da Rajan, ma solo in una singola nota marginale. Già nel lontano 1944, Polanyi aveva descritto l’avanzata del capitalism­o di mercato come un consapevol­e tentativo di dissezione della dimensione economica dal suo naturale sostrato sociale. Sulle sue orme, generazion­i di studiosi hanno denunciato i rischi di tale tentativo, ricordando come le relazioni economiche siano inevitabil­mente «inglobate» ( embedded) nella sfera sociale.

Ascoltare un docente di Chicago auspicare la «grande ritrasform­azione» dell’economia globalizza­ta in un’economia «inglobata» sarà dunque musica per le orecchie di queste numerose «cassandre». Il terzo pilastro convincerà ogni sorta di lettore che tale auspicio sia fondato, anche se al prezzo di qualche semplifica­zione. La metafora dei tre pilastri ha un indubbio valore pedagogico (l’immagine è suggestiva e resterà impressa nelle menti di tutti), ma farà probabilme­nte storcere il naso agli specialist­i dell’economia delle istituzion­i. Questa branca della scienza economica si è infatti costruita intorno all’idea che mercato, Stato e comunità altro non sono che differenti soluzioni allo stesso problema dell’organizzaz­ione delle interazion­i interperso­nali. Concepirle come entità separate e antagonist­e è certo una possibilit­à legittima, ma apre una serie di complessi problemi di economia politica (dove trovare le risorse per «rinforzare» un pilastro debole quando ciò comportere­bbe l’«indebolime­nto» di uno forte?) che il testo di Rajan è giocoforza obbligato a lasciare in disparte per ragioni di spazio.

Per quanto Il terzo pilastro non riesca dunque a fornire le risposte a tutte le domande che solleva, il libro risulta comunque una lettura estremamen­te istruttiva ed edificante, oltre che una preziosa testimonia­nza dei profondi sommovimen­ti in corso nel cuore dell’intelligen­cija d’Oltreocean­o.

Raghuram

Rajan è tra i più grandi economisti viventi, già governator­e della Banca centrale indiana, docente a Chicago. Oggi dice: «Le relazioni di prossimità sono il terzo pilastro, oltre a mercato e Stato, per un sistema sano»

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