Corriere della Sera - La Lettura
La mia Vegetariana ha un prequel: eccolo Ma io amo la vita
L’intervista Esce un dittico di novelle della coreana Han Kang. Una donna pianta, lividi, ferite. «Attenti: il dolore non è un’illuminazione»
La vegetariana, successo planetario con al centro un corpo tormentato, e Atti umani, su un massacro perpetrato nel 1980, sembrano inchiodare la sudcoreana Han Kang a un’immagine di donna a sua volta sofferente. Al telefono da Berlino, dove presenta la prima traduzione di «Le tue mani fredde» del 2002, lei si ribella con la sua voce fioca: «Ma no, io amo la vita». Eppure le due novelle che Adelphi pubblica in Convalescenza tratteggiano ancora situazioni e figure dolenti. La prima, che dà il titolo al dittico, redatta in una seconda persona che torna a tratti in Atti umani, traccia più per omissioni e accenni che per dettagli un difficile rapporto fra sorelle; nella faticosa guarigione della protagonista, rimasta ustionata dopo un trattamento di medicina tradizionale, trova un’eco proprio un malessere esistenziale che altri provano invece a rimuovere («persone che si considerano fortunate... perché possono nascondersi dietro le convenzioni»).
Il frutto della mia donna, la seconda, non evoca una maternità ma una meta
morfosi fantastica che sa di liberazione («non sono mai stata felice»), resa attraverso una prosa dalle immagini carnali: «Petali simili a lingue mozzate», la luce ora del «colore della polpa di una pesca matura» ora «tiepida e dolciastra», il «vento saturo di calore» che sfrega «le proprie guance appiccicose contro le foglie», pioggia «nera di moccio e saliva».
Sembra un abbozzo, ma più conciso e radicale, de «La vegetariana».
«Ho scritto Il frutto della mia donna nel 1997 e tre anni dopo è uscito in una raccolta di racconti. Volevo una donna che letteralmente diventasse una pianta. Dopo aver finito, però, la storia mi è rimasta dentro, l’ho come custodita, sentivo
che poteva darmi ancora qualcosa. Per il romanzo “Le tue mani fredde”, poi, ho affrontato il tema della bulimia. Ho studiato tanto a proposito di bulimia, appunto, e anoressia. Ho capito che quando sprofondi nell’anoressia il tuo corpo regredisce, in qualche misura ridiventa quello di un bambino, pelle sottile, capelli delicati... Ho amalgamato queste immagini con quelle della pianta, e poi tutto questo con la storia di una resistenza alla violenza dell’uomo. Sì, Il frutto della mia donna è la radice de La vegetariana ».
Ne «La vegetariana» ma anche in «Atti umani», il ruolo del corpo è centrale, come in queste due novelle.
«La percezione del corpo è essenziale. Non è separato dalla mente. Mi piace l’idea che le emozioni possano essere espresse dal corpo. Il dolore, ecco, preferisco descriverlo attraverso la sofferenza del corpo. A volte il corpo è una traduzione materiale delle emozioni».
Sia in «Convalescenza» sia ne «Il frutto della mia donna» cogliamo il ruolo delle aspettative sociali, delle convenzioni: la famiglia d’origine da
una parte, il matrimonio dall’altra.
«Mi piace lavorare sulle relazioni. Tra sorelle, come in Convalescenza, o tra uomo e donna. Nelle relazioni si manifesta tutto di noi: la tenerezza, l’amore, la solitudine. Mi affascina la possibilità di fissare questi aspetti, soprattutto in una storia breve: lì mi posso concentrare su una forma particolare tra quelle che i legami possono assumere o provocare». Le relazioni sono gli snodi dell’io?
«Prendiamo le due sorelle di Convalescenza. Ci sono momenti delicati nei quali si manifestano il senso di invasione di un mondo personale, di intrusione nella vita dell’altro. Credo che una short story sia la dimensione giusta per focalizzarsi su questi eventi».
Sembra quasi che il suo Paese, la Corea del Sud, sia assente da questi due lavori. Perché?
«Non credo che sia necessario sapere nulla della Corea per leggerli e capirli. Si tratta di vicende universali, come universali sono le implicazioni dei rapporti fra sorelle. Si possono collocare queste storie in qualunque famiglia, città o Paese.
Vanno a un livello più profondo, lavorano su legami intimi e mostrano che tutti, a nostra volta, siamo legati. Siamo tutti in grado di condividere emozioni così»
Lo stesso si potrebbe dire del «Libro bianco», uscito in Corea nel 2016 e non ancora tradotto in italiano.
«Condividiamo tutti la stessa storia, la storia dell’essere umano. Nel “Libro bianco” sullo sfondo ci sono Seul, una città polacca... Certo, un luogo specifico, una particolare cultura sono importanti, eppure alle fin dei conti non importano più di tanto. Siamo esseri umani».
Le due novelle ruotano intorno a un dolore fisico: piaghe, lividi, contusioni. È il dolore che dà consapevolezza? O c’è qualcosa di religioso in questo, una specie di illuminazione?
«Non ci ho pensato ma non la metterei in questi termini. Come dicevo prima, il dolore può essere la trasposizione di un’emozione. Non credo che il dolore serva per arrivare a un’illuminazione». Da giovane lei si era interessata alla filosofia buddhista...
«Se c’è un’illuminazione nelle mie sto
rie è questa: che sono aperte al momento in cui scopriamo qualcosa, al manifestarsi di un evento. Ma non ho nessuna smania di soffrire, io, non mi piace il dolore, non lo cerco. Il fatto è che il dolore è la condizione dell’uomo. Ma io amo la vita, amo la gioia». C’è tanto silenzio nei suoi testi, pare quasi prevalere sulle parole. Perché?
«Mi piace. Mi piace il modo in cui il silenzio accompagna emozioni intense. Mi piace anche il contrasto fra il silenzio e il tumulto. Il silenzio è un’oasi tra i rumori, ed è fondamentale».
L’abbinamento fra «Convalescenza», che è del 2011, e «Il frutto della mia donna» propone due opere distanti nel tempo. Sono due Hang Kang diverse?
( Ride) «Sì, sono come due Hang Kang diverse. Ma ogni testo di fiction è una cosa vivente, un organismo che ha la sua esistenza autonoma, ed è bello vederlo andare da solo, camminare, sprigionare vita ed energia anche dopo tanto tempo. Io resto legata alle mie storie come le storie mettono in connessione le persone».