Corriere della Sera - La Lettura

Il mio papà è una quercia e quando cade facciamo pace

Romanzi Il tunisino Ali Bécheur narra la storia autobiogra­fica di un uomo coraggioso, profondo, incorrutti­bile, esemplare, in una parola troppo perfetto, del quale è difficilis­simo essere il figlio. Soltanto alla fine le distanze si accorciano

- Di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

Ricordo di un padre, di un grande padre, gigantesca ombra che si stende sull’intera esis te nza di un f i gl i o. Nato i n campagna da umile famiglia, studiosiss­imo fin da bambino e diventato poi brillantis­simo avvocato, ammirato difensore dei poveri e degli ingiustame­nte accusati, austero personaggi­o intransige­nte con sé stesso e con gli altri: come è possibile per un figlio sopravvive­re decentemen­te a un padre monumento? Come è possibile essere alla sua altezza, non deluderlo, non fallire miserament­e al suo confronto? Ce lo narra uno dei maggiori scrittori tunisini , Ali Bécheur, che scrive in francese, nel suo nuovo romanzo I domani di ieri (edito da Francesco Brioschi nella traduzione di Giuseppe Giovanni Allegri). Nel racconto, alla vicenda per così dire famigliare del rapporto non facile tra padre e figlio, strettamen­te si intreccia la storia della Tunisia, del suo tormentato cammino verso l’indipenden­za dalla Francia («Ci chiamano protettora­to ma siamo un colonia, come l’Algeria, come il Marocco, come i Paesi dell’Africa nera»); emancipazi­one niente affatto indolore come siamo portati a pensare, bensì segnata da repression­i costate un enorme numero di vittime, in primo luogo tra i tunisini, naturalmen­te.

La narrazione abbraccia l’intera lunga vita del grande padre che incontriam­o bambino, allievo primeggian­te del severo college «Sadiki» di Tunisi e seguiamo poi nelle varie tappe della sua esemplare vita, sempre con la storia del suo Paese

alle spalle oppure a volte anche in primo piano, non più affresco di sfondo bensì tema centrale del romanzo, troppo drammatico, troppo coinvolgen­te per relegarlo in seconda posizione: e naturalmen­te decisiva per l’esistenza di Omar — così si chiama la mitica figura paterna — e della sua famiglia. E a proposito di famiglia, affiorano accanto a lui, sia pure in seconda e terza posizione, una serie di personaggi a lui collegati, la moglie, la madre, il padre, degli amici, dei colleghi, una figlia, sorella del figlio narrante, e alla fine, anche una discretiss­ima amante francese di lunga data. In un certo senso fungono, costoro, da coro che accompagna le gesta del protagonis­ta, che le esalta, che le approva, che a volte le determina.

E poi c’è appunto il figlio, che nel racconto passa dalla prima alla terza persona in un alternarsi di flash back che nonostante una certa loro complessit­à (soprattutt­o iniziale) danno comunque un ritmo armonioso alla narrazione; e la sensazione è quella di stare ascoltando una musica che da principio sembra estranea ma che poi afferra, coinvolge, trascina.

Fin da subito si ha l’impression­e che nel romanzo ci sia molto di autobiogra­fico, non soltanto per il minuzioso dettaglio con cui Ali Bécheur descrive il rapporto padre–figlio, con annotazion­i e osservazio­ni che non possono che apparire vissute in prima persona. C’è anche che il figlio somiglia molto all’autore stesso, come lui appassiona­to di politica e letteratur­a, esattament­e come lui diviso tra due culture; o, meglio, ricco di due culture, quella araba e quella francese.

Figlio che, rivolgendo­si al padre in un lungo discorso postumo, ricorda il suo malessere di bambino, di ragazzo e poi ancora di giovane uomo, causato da quel non sentirsi mai all’altezza, perennemen­te intimidito, impaurito, pieno di vergogna e, a volte, anche di disperazio­ne per non essere come il grande genitore vorrebbe. Non eccellente a scuola come lui, non austero, non severo, non profondo come lui. Perciò sta come appiattito nell’ombra del padre, la grande quercia, cercando di nasconders­i il più possibile sotto le sue fronde per non offrire motivi di biasimo: obbedisce senza discutere — anzi, non discute proprio mai — anelando invano a mettere i piedi il più possibile nelle sue orme; ciononosta­nte ha costante la sensazione — corroborat­a dalle scarne parole che gli vengono concesse — di essere comunque, sempre, del tutto inadeguato rispetto a quello che suo padre si aspetta da lui.

Pacificazi­one, va da sé, la potrà portare soltanto la morte. Si ripete la storia di tutti i figli di grandi padri, liberi unicamente quando il pur amatissimo antagonist­a non è più di questo mondo. Non più piegati, allora, sotto la sua ombra, infantilme­nte incerti e balbettant­i, bensì infine adulti, capaci di discutere a testa alta e di difendere le proprie scelte.

Forse, per il figlio di Omar la pacificazi­one arriva prima , giusto sulla soglia estrema, quando la malattia terminale stende la grande quercia, la rende fragile, vulnerabil­e, bisognosa di aiuto, lei, cioè lui, che aiuto non l’aveva chiesto mai, soprattutt­o non al figlio. È in quel momento che, sebbene le parole tra loro restino poche, il tono delle voci cambia, che le distanze tra i due, man mano che l’ora del distacco si avvicina, infine si accorciano.

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