Corriere della Sera - La Lettura
Il mio papà è una quercia e quando cade facciamo pace
Romanzi Il tunisino Ali Bécheur narra la storia autobiografica di un uomo coraggioso, profondo, incorruttibile, esemplare, in una parola troppo perfetto, del quale è difficilissimo essere il figlio. Soltanto alla fine le distanze si accorciano
Ricordo di un padre, di un grande padre, gigantesca ombra che si stende sull’intera esis te nza di un f i gl i o. Nato i n campagna da umile famiglia, studiosissimo fin da bambino e diventato poi brillantissimo avvocato, ammirato difensore dei poveri e degli ingiustamente accusati, austero personaggio intransigente con sé stesso e con gli altri: come è possibile per un figlio sopravvivere decentemente a un padre monumento? Come è possibile essere alla sua altezza, non deluderlo, non fallire miseramente al suo confronto? Ce lo narra uno dei maggiori scrittori tunisini , Ali Bécheur, che scrive in francese, nel suo nuovo romanzo I domani di ieri (edito da Francesco Brioschi nella traduzione di Giuseppe Giovanni Allegri). Nel racconto, alla vicenda per così dire famigliare del rapporto non facile tra padre e figlio, strettamente si intreccia la storia della Tunisia, del suo tormentato cammino verso l’indipendenza dalla Francia («Ci chiamano protettorato ma siamo un colonia, come l’Algeria, come il Marocco, come i Paesi dell’Africa nera»); emancipazione niente affatto indolore come siamo portati a pensare, bensì segnata da repressioni costate un enorme numero di vittime, in primo luogo tra i tunisini, naturalmente.
La narrazione abbraccia l’intera lunga vita del grande padre che incontriamo bambino, allievo primeggiante del severo college «Sadiki» di Tunisi e seguiamo poi nelle varie tappe della sua esemplare vita, sempre con la storia del suo Paese
alle spalle oppure a volte anche in primo piano, non più affresco di sfondo bensì tema centrale del romanzo, troppo drammatico, troppo coinvolgente per relegarlo in seconda posizione: e naturalmente decisiva per l’esistenza di Omar — così si chiama la mitica figura paterna — e della sua famiglia. E a proposito di famiglia, affiorano accanto a lui, sia pure in seconda e terza posizione, una serie di personaggi a lui collegati, la moglie, la madre, il padre, degli amici, dei colleghi, una figlia, sorella del figlio narrante, e alla fine, anche una discretissima amante francese di lunga data. In un certo senso fungono, costoro, da coro che accompagna le gesta del protagonista, che le esalta, che le approva, che a volte le determina.
E poi c’è appunto il figlio, che nel racconto passa dalla prima alla terza persona in un alternarsi di flash back che nonostante una certa loro complessità (soprattutto iniziale) danno comunque un ritmo armonioso alla narrazione; e la sensazione è quella di stare ascoltando una musica che da principio sembra estranea ma che poi afferra, coinvolge, trascina.
Fin da subito si ha l’impressione che nel romanzo ci sia molto di autobiografico, non soltanto per il minuzioso dettaglio con cui Ali Bécheur descrive il rapporto padre–figlio, con annotazioni e osservazioni che non possono che apparire vissute in prima persona. C’è anche che il figlio somiglia molto all’autore stesso, come lui appassionato di politica e letteratura, esattamente come lui diviso tra due culture; o, meglio, ricco di due culture, quella araba e quella francese.
Figlio che, rivolgendosi al padre in un lungo discorso postumo, ricorda il suo malessere di bambino, di ragazzo e poi ancora di giovane uomo, causato da quel non sentirsi mai all’altezza, perennemente intimidito, impaurito, pieno di vergogna e, a volte, anche di disperazione per non essere come il grande genitore vorrebbe. Non eccellente a scuola come lui, non austero, non severo, non profondo come lui. Perciò sta come appiattito nell’ombra del padre, la grande quercia, cercando di nascondersi il più possibile sotto le sue fronde per non offrire motivi di biasimo: obbedisce senza discutere — anzi, non discute proprio mai — anelando invano a mettere i piedi il più possibile nelle sue orme; ciononostante ha costante la sensazione — corroborata dalle scarne parole che gli vengono concesse — di essere comunque, sempre, del tutto inadeguato rispetto a quello che suo padre si aspetta da lui.
Pacificazione, va da sé, la potrà portare soltanto la morte. Si ripete la storia di tutti i figli di grandi padri, liberi unicamente quando il pur amatissimo antagonista non è più di questo mondo. Non più piegati, allora, sotto la sua ombra, infantilmente incerti e balbettanti, bensì infine adulti, capaci di discutere a testa alta e di difendere le proprie scelte.
Forse, per il figlio di Omar la pacificazione arriva prima , giusto sulla soglia estrema, quando la malattia terminale stende la grande quercia, la rende fragile, vulnerabile, bisognosa di aiuto, lei, cioè lui, che aiuto non l’aveva chiesto mai, soprattutto non al figlio. È in quel momento che, sebbene le parole tra loro restino poche, il tono delle voci cambia, che le distanze tra i due, man mano che l’ora del distacco si avvicina, infine si accorciano.