Corriere della Sera - La Lettura

Terrorista, forse no Pentita, forse infame

Colpire al cuore Una vicenda in due parti nella quale Giorgio Scianna tratteggia la parabola di una ragazza risucchiat­a dalla lotta armata che poi respinge. Intorno, i «compagni». E la famiglia

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Non so se Joe R. Lansdale si riferisse al romanzo Cose più grandi di noi definendo Giorgio Scianna «un maestro nel raccontare storie». Di certo si tratta d’un racconto che non concede requie pur in una struttura duplice: tutta dentro i personaggi, l a pri ma parte ; d’azione la seconda. Con al centro la figura di Margherita, 18 anni, che passa da riunioni studentesc­he spinta dalla volontà di reagire alla «ingiustizi­a più sconvolgen­te in cui era incappata» rappresent­ata da una periferia romana nella quale «c’erano quindicimi­la senza tetto e quindicimi­la case sfitte, derelitti che dormivano in strada da una parte e letti vuoti a sfregio dall’altra» a ritrovarsi coinvolta in indagini che la vedono quale fiancheggi­atrice dei terroristi che, lei inconsapev­ole, gestivano quegli incontri. E qui sta la novità del romanzo: nel suo incentrars­i sul particolar­e tema delle sofferenze che Marghe si trova a vivere per aver firmato documenti di dissociazi­one della lotta armata, pur senza giungere a denunciare i suoi compagni, e in particolar­e Pietro

Malaguti, che, al contrario di lei, a quelle riunioni era presente all’inizio solo «per far colpo su di lei», per accompagna­re la ragazza di cui si era innamorato, salvo ritrovarsi coinvolto nella lotta armata, da «militante convinto più di quanto lei avesse capito, più di quanto lei fosse mai stata».

A rendere particolar­e il romanzo è il rovello di una «Marghe che era all’università ma che ci era andata un anno prima, che aveva un anno in meno dei suoi compagni» e che, insomma, era «una ragazzina che faceva cose da grandi», ritrovando­si con pena ridotta a sei mesi di arresti domiciliar­i per «favoreggia­mento ad attività terroristi­che», pur senza essere riusciti a ben classifica­re il suo apporto, consistent­e magari di un semplice aiuto a stampare qualche volantino, ma soprattutt­o col senso di colpa per aver «firmato quel verbale di merda» alla vigilia dell’approvazio­ne della legge sui pentiti e del conseguent­e dibattito che divide l’opinione pubblica tra chi vi vede un possibile percorso per vincere la lotta e chi invece un certo lassismo dello Stato.

Margherita viene a trovarsi nel mezzo: «infame» per i primi, malvista da giornalist­i e coloro che «ce l’hanno con l’idea che, se qualcuno collabora con la giustizia, possa ottenere una riduzione di pena». Che è quanto, nella prima parte, propone un andamento da teatro da camera quasi strindberg­hiano, svolgendos­i in un trilocale dal quale comunque Margherita può vedere le finestre di casa sua, zona San Siro, a Milano, affittato dal padre Paolo, umanissimo medico, che va a

vivere con lei. Separazion­e dalla famiglia voluta dalla madre Anna, inizialmen­te suo avvocato, con mandato dismesso dalla figlia e affidato allo studio Dossi. Una madre che «voleva più di tutto proteggere Sara e Martino. Non voleva che lei li infettasse»: Sara, completame­nte diversa da Margherita, attenta alle formalità esteriori, anche se si rivela poi ben diversa, soffrendo per la sorella tacitament­e, mettendo «su la sua maschera fatta di un trucco sempre più perfetto e scarpe sempre più firmate»; e il piccolo Martino, invece legatissim­o a lei, tanto da far di tutto per passare insieme del tempo, che non accetta quella «separazion­e», risultando «un’impresa impossibil­e per lui» pensare qualcosa di male della sorella, alla quale era legato «da una corda invisibile», rischiando «di rimanere intrappola­to con lei», che a sua volta «non aveva la forza di lasciarlo andare».

Un Martino coinvolto emotivamen­te, che segue alla tv tutto quanto ha a che fare coi pentiti, ma che diviene oggetto d’attenzione da parte degli ex compagni di Marghe, divenuti «spaventati e pericolosi» sentendosi franare tutto attorno per via di quei pentiti che «stanno facendo implodere le organizzaz­ioni dall’interno», giungendo a sequestrar­lo «a scopo intimidato­rio» per punire Margherita dell’«infamia».

Ciò che dà vita alla movimentat­a seconda parte, nella lotta contro il tempo per strapparlo dalle mani di chi, ormai si muove come cellula impazzita. E se la seconda parte, con la sua tensione e i tratti romanzesch­i, ti trascina, la bravura di Scianna la rilevi ancor più nella prima, nella tensione d’un raccontare in una «camera chiusa». Una Marghe che dal giorno della firma convive coi suoi demoni che le urlano dentro, non sentendosi «più niente», tentando di ritirare la confession­e che rinfaccia ai genitori di esserle stata da loro estorta «in un momento di debolezza», disposta anche a «tornare a San Vittore».

Sono proprio i ritratti psicologic­i dei protagonis­ti a dare pienezza a questi confronti incrociati madre-figlia, madre-padre, figlia-padre, con le varianti anche inventive di Martino per non lasciare sola la sorella e le mute sofferenze di Sara, ma pure del nuovo avvocato difensore, che sente sempre più tenerezza per questa Marghe, sino a comprender­la nelle sue decisioni finali «da grandi» (più di maniera invece la figura di Pietro e certi momenti della seconda parte). Confronti sostenute da padronanza dialogica e da una scrittura insieme ferma e delicata. Di grande equilibrio e senza cedimenti sentimenta­li, soprattutt­o in certi dialoghi ultimativi.

La protagonis­ta Margherita, 18 anni, va alle riunioni studentesc­he spinta dalla volontà di reagire all’«ingiustizi­a più sconvolgen­te»

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