Corriere della Sera - La Lettura

Un sermone umile nel nome di Maria

Alessandro Zaccuri intreccia la storia della Madonna e quella della propria madre

- Di DEMETRIO PAOLIN

Alessandro Zaccuri con Nel nome scrive uno dei suoi libri più intimi ed enigmatici, e questo si comprende già dalla forma con cui si presenta a noi lettori. È un saggio? Un memoir? Una raccolta di prose? È la somma di queste categorie, tenute insieme dalla costante indagine di Zaccuri sul nome, più comune e misterioso, della Sacra Scrittura: quello di Maria, che contiene in sé la storia della madre di Gesù e la storia della madre dell’autore stesso. In costante e continuo slittament­o Zaccuri, che racconta dal punto di vista del

figlio, guarda alle vicende di Maria e a quelle della propria madre come una storia di amore, di passione, di dolore, lutto e accettazio­ne. Con una forma di sincerità potente, perché inverata in una prosa limpida, mai didascalic­a, in cui ogni singola frase pare sorgere necessaria, l’autore racconta la storia della morte per malattia della propria madre.

Non c’è nessun compiacime­nto, nessuna via crucis del dolore, ma uno sguardo profondo e fermo, della fermezza di chi guarda le cose del mondo con l’occhio della fede, sul mistero della vita umana, che ha in sé anche la malattia e il dolore, oltre alla gioia e la bellezza. Come gli altri testi di CroceVia, la collana di NNE, che recupera e ripropone in termini di modernità la Scrittura, Zaccuri lavora su una sorta di piano doppio, che ha come suo neppure tanto nascosto interlocut­ore il Carrère de Il regno. Nel testo sono presenti, infatti, pagine molto profonde di riflession­e letteraria, critico-estetica su passi dei Vangeli, descrizion­i e brevi dissertazi­oni su opere pittoriche.

Diversamen­te da Carrère, in cui l’apparato didascalic­o entra in frizione con il racconto del sé, Zaccuri riesce a dominare meglio la duplice tensione e il passaggio dall’erudizione saggistica alla confession­e intima o al racconto di un episodio simbolico è gestito con maggiore sapienza. Questa capacità è legata alla lingua di Zaccuri.

Alla lettura si accompagna l’impression­e di facilità; le frasi si susseguono senza un inciampo, o una forzatura. È veramente, o almeno pare, un italiano medio ciò che la pagina ci consegna, ma la sapienza compositiv­a del suo autore sta in questa presunta semplicità. Il lavoro sulla lingua è costante, prova ne sia l’aggettivaz­ione ridotta al minimo ma precisa o l’attenzione al montaggio delle sequenze narrative in cui il dosaggio nelle notizie, le ripetizion­i, le reticenze spiegano come Zaccuri abbia preso a modello la scrittura dei Vangeli, che non sono tanto atto di testimonia­nza, ma racconto — novella — che non tende tanto alla restituzio­ne della realtà, quanto a mostrare la verità. La lingua di Zaccuri è una sorta di riproposiz­ione moderna del sermo humilis della Scrittura, che è il tentativo di trovare la profondità della rivelazion­e a partire dalle piccole cose, come un comunissim­o nome di tre sillabe che tiene in sé il mistero dell’essere umano e di Dio.

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