Corriere della Sera - La Lettura
Scrivere fa vivere (e serve a girare i film)
Francesca Archibugi La regista rintraccia nei romanzi le radici del suo cinema «Creo da sola la lingua delle storie. Cerco la normalità, viaggio in seconda classe»
La voce, si sa, può suggerire molto di una persona. Al telefono quella della regista e sceneggiatrice Francesca Archibugi — ospite a Mirandola il 1° giugno in dialogo (sul cinema) con Gian Piero Brunetta nell’ambito del festival pro-Memoria — è rassicurante. Dai toni serali e calmi. Che mostra la persona per quello che è: «Detesto la vanagloria — racconta la cineasta a “la Lettura” — ma nel nostro mestiere anche essere troppo umili sarebbe disonesto». Poi cita subito «un bellissimo libro di Roberto Rossellini, a cura di Adriano Aprà e pubblicato nel 2006 da Marsilio, Il mio metodo. Scritti e interviste. Leggendolo si riesce a mettere a fuoco che cosa si vuole fare come re
gisti e come lo si vuole fare. Rossellini sosteneva che un regista dovrebbe fare dei film solo sulle cose che sente vive, che non conosce a fondo. Arrivare alla conoscenza di quella cosa significa realizzare il film. Ma non dimentichiamo nemmeno che un regista non può essere esperto di nulla. Dovrebbe essere esperto di vita, perché il cinema racconta la vita, ma questo è notoriamente impossibile», ride.
Quando si sofferma sulla parola memoria, la scandisce: «La m-e-m-o-r-i-a è il nostro presente. Non sta staccata da me, si sedimenta dentro ma non è lontana. Guida il presente. Anche perché sennò la si può confondere con la decadenza, che è tutt’altra cosa. Lo sosteneva anche il filosofo francese Henri-Louis Bergson: la memoria siamo noi».
Sono bellissime contraddizioni, queste, perché rispecchiano la vita. Come il cinema di Archibugi («non amo la definizione “il mio cinema”. Io viaggio in seconda classe. Essere normali serve. Sono stata anche cinque anni senza fare film; una precaria, ma non di lusso come a tanti piace pensare: è stata dura davvero»). La normalità, questa normalità, Archibugi la mette nei suoi film. «Bisogna avere occhio, sapere vedere, anche dove ci sembra che non ci sia nulla. La stessa strada, ripresa in un tg è inerte, dalla macchina fotografica di un professionista si fa vivida».
È cresciuta in una famiglia della borghesia romana (che ha raccontato in alcuni suoi film, già dal primo, Mignon è partita del 1988), tra fratelli e sorelle, con un padre urbanista e una madre poetessa; in una casa permeata di musica con un nonno violinista e lei stessa che studiava pianoforte classico. «Da noi la musica era viva, tant’è che la cosa più naturale fu di innamorarmi poi di un musicista — Battista Lena, ndr — con il quale ancora oggi condivido la mia vita e che cura le colonne sonore dei miei film, che non commentano le immagini ma cercano di estrarne l’occulto». Al cinema è arrivata quasi per caso. Scritturata a 16 anni da Gianni Amico per la parte di Ottilia ne Le affinità elettive tratte da Goethe, si è poi iscritta al Centro Sperimentale di Cinema, diventando una delle più brillanti allieve; suoi maestri di sceneggiatura Leo Benvenuti e Furio Scarpelli, per compagno di corso Paolo Virzì. «Con lui e Francesco Piccolo abbiamo scritto la sceneggiatura del nuovo film, appena finito e in uscita la prossima stagione, Vivere (con Micaela Ramazzotti e Adriano Giannini, ndr). La scrittura, l’invenzione della lingua del film sono cose intime, mie, che faccio da sola. Con loro ho scritto la sceneggiatura».
Archibugi non è regista che costruisce per immagini. La sua è «una costruzione letteraria. Scrivo a lungo. Faccio un cinema di parola». La sua ambizione è che «la storia si racconti da sola». Il primo interesse era però la scrittura. «Ero una lettrice seriale e mi mangiavo dei pezzetti di carta staccandoli dalle punte di ogni pagina... Salgari, Dickens in versione per ragazzi, Astrid Lindgren. Il suo primo romanzo, che non aveva nulla a che fare con Pippi Calzelunghe, era un libro cupo, angosciante». Alla domanda perché non abbia mai pensato di fare la scrittrice, si ferma un paio di secondi, come se in quella frazione di tempo dovesse decidere se rispondere o meno. «Mia madre scriveva molto bene. Avrebbe voluto fare la scrittrice ma è stata sfortunata. È morta presto. Non me la sono sentita di prendere qualcosa che le apparteneva, la scrittura. Mi sono detta: “Farò qualsiasi cosa ma non la scrittrice”. Mi sentirei una ladra». La madre era severa. «Ci vietava di guardare la televisione e di bere Coca-Cola, da buona femminista contestatrice, ma una volta da mia nonna, che era più permissiva, vidi il film che per primo mi colpì, al punto che quella sera la ricordo ancora oggi perfettamente. Era Furore di John Ford. Il cinema americano in quegli anni Sessanta per me è stato formativo. Poi è venuta la Francia, non solo la Nouvelle Vague». Una cosa che colpisce nei suoi film è che uno dei temi ricorrenti è la malattia. «Nella vita che racconto, quella borghese, quando si rompe il corpo, si mette in moto la psiche, si aggiusta».