Corriere della Sera - La Lettura
La Terra siamo noi Il pugno dell’uomo
Urgenze planetarie Montagne scavate, foreste distrutte, fiumi deviati: il mondo è deturpato e la colpa è nostra. Per fortuna le coscienze si stanno risvegliando. Merito anche degli artisti...
Il corso del fiume Colorado è deviato, la montagna incisa (le cave di Carrara), la costa cinese sfregiata da barriere frangiflutti. La discarica di Dandora, appena fuori Nairobi, è una distesa sterminata di plastica, il confine tra il terreno coltivato e quello incolto in una piantagione di palme da olio del Borneo è una linea retta, le raffinerie di Houston, Texas, sembrano non avere fine. Effetti dell’uomo sulla Terra. Devastanti, spesso irreversibili. Oggetto di studio. Di classificazioni: lo chiamano Antropocene, epoca — la nostra — in cui l’impronta umana domina e determina l’esistenza di tutti gli esseri viventi. Non è la prima volta che se ne parla — il termine è stato coniato nel 2000, quindi divulgato dal Premio Nobel Paul Crutzen. Ma l’urgenza, i cambiamenti climatici, la sensazione di avere adesso, solo adesso, un’ultima chance per invertire la rotta, hanno risvegliato le sensibilità pervadendo i lavori degli ar
tisti. il risultato un susseguirsi di appuntamenti, conferenze, visioni. Anche in Italia. Con gli scatti di un maestro della fotografia, un film, una mostra a Bologna, una in arrivo a settembre a Matera, un festival dedicato all’ambiente. Immagini, murales, la realtà aumentata, il 3D. Per spiegare. Per dare forma alle responsabilità (di tutti). E provocare una reazione.
Uno scossone alla nostra coscienza ambientale. La potenza sciagurata dell’uomo vista da molto vicino, ad altissima risoluzione. Con trentacinque scatti d’autore (del canadese Edward Burtynsky), tre installazioni a realtà aumentata (una montagna di zanne di avorio confiscate, un rinoceronte bianco, un abete Douglas ad altezza quasi naturale), un film raccontato dalla voce del premio Oscar Alicia Vikander, quattro enormi murales che abbinano tecniche fotografiche e filmiche, tredici video-installazioni, si è aperta al Mast di Bologna Anthro
Le immagini Qui sopra: Edward Burtynsky (St. Catharines, Canada, 1955), Carrara Marble Quarries, Cava di Canalgrande #2, Carrara, Italy 2016. Nella pagina accanto, dall’alto, altri due scatti di
Burtynsky: Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016 e Clearcut #1, Palm Oil Plantation, Borneo, Malaysia 2016
(foto © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milano/ Nicholas Metivier Gallery, Toronto)
pocene, mostra nata dalla collaborazione tra Edward Burtynsky e i registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. Un’anteprima europea (fino al 22 settembre). «L’Italia — spiega il fotografo canadese — ha un posto speciale nel mio lavoro. È stata il primo Paese fuori dal Nord America in cui ho scattato: le cave di Carrara nel 1993. È bellissimo tornare dopo 26 anni».
Dighe, auto accatastate dopo un’inondazione, disboscamenti, piane del sale nel deserto di Atacama in Cile, il «bunkeraggio» di petrolio (il greggio piratato) nel delta del Niger, i bacini di decantazione di residui di fosforo in Florida, la miniera di lignite di Hambach, in Germania, con il suo immenso escavatore, di potassio in Russia, le conseguenze del fracking — la fratturazione idraulica — nel Wyoming, il corallo sbiancato della grande barriera australiana: giro del mondo (multimediale) per documentare la mano pesante dell’uomo sulla Terra. Non sono suggestioni, e nemmeno esercizi estetici — anche se le immagini sono bellissime — su drammi presunti: il progetto di Burtynsky, Baichwal e de Pencier si basa sulla ricerca degli scienziati dell’Anthropocene Working Group, impegnati nel raccogliere prove del passaggio dall’attuale epoca geologica, l’Olocene, iniziata circa 11.700 anni fa, all’attuale Antropocene (dal greco anthropos, uomo). E tra i vari mezzi espressivi che arricchiscono la mostra rendendola un happening multimediale c’è anche il film che il fotografo e i due registi hanno cofirmato. Sei continenti (manca solo l’Antartide), venti Paesi, quarantatré location: An
thropocene: The Human Epoch, terzo di una trilogia cominciata nel 2005 (con i film Manufactured Landscapes e Watermark), propone al pubblico un’esperienza che evidenzia — urla — l’impatto della nostra specie sul mondo. «Non vogliamo fare prediche, rivendicare o attribuire colpe — ha spiegato Jennifer Baichwal — ma semplicemente testimoniare e, da testimoni, cercare di smuovere le coscienze». Ha aggiunto Nicholas de Pencier: «È mia responsabilità usare la macchina da presa come uno specchio e non un martello: invitare gli spettatori a essere testimoni di questi luoghi e a reagire ognuno a suo modo».
Il film, premiato ai Canadian Screen Awards come miglior lungometraggio (e per la fotografia), sarà in gara nella sezione documentari internazionali al Festival CinemAmbiente, a Torino dal 31 maggio al 5 giugno. La proiezione è prevista per sabato 1° giugno alle 20 al Cinema Massimo di Torino (poi la pellicola sarà trasmessa nelle sale di tutta Italia a settembre). Al termine, si terrà un incontro con Carlo Rondinini, coordinatore del programma Global Mammal Assessment, che valuta il rischio di estinzione dei mammiferi marini e terrestri, e Franco Andreone, presidente dell’International Society for the Study and Conservation of the Amphibians.
E se non bastasse, se non fosse chiara l’urgenza con cui il tema si sta affacciando negli spazi culturali, nelle aule universitarie, nelle case, arriviamo a Milano, dove l’Antropocene è al centro della riflessione della Arch Week che si chiude oggi, e dove giovedì 30 maggio, al Pirelli HangarBicocca, è in programma «Diventare geologici. Discesa nella materia», lectio del critico Riccardo Venturi che a partire dalla mostra CittàdiMilano di Giorgio Andreotta Calò proporrà una riflessione sul significato contemporaneo della geologia, «forma di sapere necessaria con cui gli artisti scelgono di misurarsi». Poi c’è La Terra, la storia e noi. L’evento Antropocene, libro di Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz appena uscito per Treccani nella traduzione di Agnese Accattoli e Andrea Grechi e definito «la prima storia critica e politica dell’Antropocene». E un’altra mostra in arrivo.
A Matera, Capitale europea della Cultura 2019, il 6 settembre (e fino al 6 gennaio 2020) arriva Blind Senso
rium. Il paradosso dell’Antropocene di Armin Linke in collaborazione con Giulia Bruno e Giuseppe Ielasi e curata da Anselm Franke. È l’archivio dell’artista — per la prima volta e per intero — in mostra: fotografie, documenti, centinaia di ore di materiale filmico, interviste e proiezioni raccolte in dieci anni di ricerca danno corpo a un’indagine sul marchio impresso dall’uomo al pianeta. Nella costruzione del suo immenso schedario Linke ha avuto accesso ai data center climatici e alle sale di negoziazione delle Nazioni Unite; ha documentato luoghi paradigmatici per l’era dei combustibili fossili; segnalato località in cui gli ecosistemi hanno subito profonde trasformazioni.
Calcolo dei rischi, riflessione, denuncia, condivisione, arte. Duemila anni fa vivevano sulla Terra tra i 200 e i 300 milioni di persone, ora siamo 7,6 miliardi circa. Urs Stahel, uno dei tre curatori della mostra al Mast, ricorda: «Dal punto di vista geologico il concetto di Antropocene è oggetto di discussione, ma non lo sono la portata e la complessità dell’influenza esercitata dall’essere umano sul pianeta. Questo cambia tutto, e per sempre».