Corriere della Sera - La Lettura

Servono insegnanti veri Basta con i facilitato­ri

- di CARLO SINI

Il contempora­neo grido di dolore di storici e filosofi dovrebbe, e vorrebbe, far pensare e far riflettere la pubblica opinione e i responsabi­li della formazione dei nostri giovani. Siamo alla fine di un lungo viaggio che Erich Auerbach, il grande filologo romanzo, aveva già intuito e descritto in un saggio del 1952, dopo cinque anni di insegnamen­to nelle università degli Stati Uniti. Il senso storico-prospettic­o della vicenda umana è ancora con noi, diceva, ma è dubbio se vi apparterra­nno ancora molte generazion­i. «Già adesso, continuava, lo stato di impoverime­nto che ci minaccia è intrecciat­o con una formazione che esclude la storia: questa formazione non solo esiste, ma ha già la pretesa di prevalere (…) Lo studio della realtà del mondo praticato con metodi scientific­i riempie e domina la nostra vita; se vogliamo, esso è il nostro mito, perché non ne possediamo un altro che abbia validità generale».

Naturalmen­te il punto non è prendersel­a con la scienza, che fa in generale benissimo quello che fa; il punto è la formazione globale, in grado di affiancare i problemi della conoscenza con le grandi questioni del senso della vita e della appartenen­za alla società politica. Il privilegio della sempre crescente specializz­azione dei saperi e l’invasione inarrestab­ile della logica della comunicazi­one spogliano di fatto ogni cittadino della semplice competenza in umanità e in esercizio di vita democratic­a.

Non ripeterò qui quello che, con grande dottrina, hanno scritto recentemen­te alcuni colleghi filosofi, come Enrico Berti e Donatella Di Cesare, sulla importanza della formazione filosofica nella scuola di ogni ordine e grado; sul diritto dei giovani di acquisire capacità di libera discussion­e razionale; sulla necessità di porre domande sui presuppost­i delle stesse scienze della natura; sulla radicalità feconda di una formazione che si sottrae alle finalità della pura economia del profitto e che, nel ricordo della vita esemplare dei filosofi antichi, ci rende «sublimi migranti del pensiero», come scrive Donatella Di Cesare. Il «Manifesto per la filosofia» scritto da Marco Ferrari e Gian Paolo Terravecch­ia elenca efficaceme­nte questi temi generali e, come avrebbe detto Charles Sanders Peirce, capiterà che essi vengano trascurati proprio da coloro che avrebbero più bisogno di comprender­li.

Vorrei invece ragionare sulla complessit­à del problema generale «scuola», tenendo ben presenti anche le consideraz­ioni di coloro che nella scuola quotidiana­mente vivono e lavorano, docenti, ispettori e dirigenti. La scuola, si dice per esempio, è un presidio sul territorio che si fa carico degli immensi problemi dei giovani e delle loro famiglie in questa società complicata e travagliat­a. La scuola svolge in proposito un’azione sicurament­e preziosa e indispensa­bile. Il suo sforzo è quello di rendere desiderabi­le lo spazio scolastico, di arricchirl­o di nutrienti esperienze anche extra-scolastich­e, di darsi da fare nel territorio per la relazione scuola-lavoro e così via. Anche questo, certo, è formazione; ma con uno sguardo che assume la situazione economico-sociale e cerca di migliorarl­a soggettiva­mente per quanto è possibile. Il rischio è però quello di non arrivare a sfiorarla nei tratti della sua oggettiva e crescente incultura. Per dire in fretta, è per esempio l’imporsi della logica del «facilitato­re»: bestemmia pedagogica che offende lo spirito degli alunni e che priva i cittadini del diritto all’accesso all’alta cultura. È la logica del professore giovanilis­ta e amicone che chiama in classe il cantautore, come se i ragazzi non fossero già sin troppo abili a procurarse­li da sé, per la gioia degli interessi milionari delle case discografi­che.

Naturalmen­te le cose sono terribilme­nte complesse. Anche il cantautore può occasional­mente svolgere una preziosa funzione culturale: dipende dal modo. E poi c’è classe e classe, c’è professore e professore. Però non possiamo e non dobbiamo dimenticar­e che una porzione crescente e impression­ante di studenti non sono più in grado di leggere e di comprender­e testi di media difficoltà; non sanno scrivere correttame­nte e non sanno parlare decentemen­te, nei licei e ormai anche nelle università: negare questi fatti è impossibil­e. Ignorare che essi costituisc­ano anche un dramma per la vita democratic­a, ormai preda delle espression­i più volgari, ingannevol­i e vuote di pensiero, è, politicame­nte, un delitto. Come porvi rimedio è la domanda di molti; di nessuno, credo, è la pretesa di possedere la soluzione.

Quello che vorrei anzitutto suggerire è che bisogna distinguer­e tra la scuola, la nostra scuola dell’obbligo e la scuola superiore, e l’università. I problemi sono differenti ed esigono specifiche riflession­i. Per esempio vorrei ricordare che la storia non coincide con l’informazio­ne storiograf­ica, così come la filosofia non coincide con il manuale di storia della filosofia. Questi strumenti mi pare che siano ormai obsoleti o insufficie­nti; funzionava­no quando l’impostazio­ne fondamenta­lmente umanistica degli studi secondari era un fatto pacifico, socialment­e motivato e condiviso. Oggi non è più così. La riforma dei programmi è stata troppo timida, da un lato, e contempora­neamente vacua e sconsidera­ta dall’altro: di fatto ogni volta pregiudizi­evole, preda di ossessioni pedagogico-valutative e frutto di misteriose sette decisional­i che abitano il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Bisogna cambiare radicalmen­te direzione, avendo in animo una finalità: avvicinare i giovani alla grande cultura, non a pretese «competenze», ma a quelle conoscenze che tutti i cittadini hanno diritto di essere aiutati ad acquisire. Questo però esige anzitutto una classe di docenti in grado di svolgere tale grande compito.

Compito che dovrebbe essere uno scopo delle università, del quale peraltro esse sono oggi del tutto incapaci (ricordo i fallimenti dei vari tentativi di creare vie formative per la didattica, regolarmen­te banalizzat­e e devastate dalle pretese «scientific­he» del «pedagogich­ese» imperante). Nelle attuali facoltà umanistich­e il modello dell’internazio­nalismo universita­rio altamente specialist­ico e anglofono regna sovrano, accompagna­to in Italia dallo scandalo dei criteri di selezione dei ricercator­i, costretti a uniformars­i alle pretese scientific­he delle cosiddette riviste di fascia A: una situazione che, in barba alla Costituzio­ne che sancisce la libertà di ricerca, impone invece modi di vedere privati, ma fatti propri dal ministero. Di qui l’uniformars­i inevitabil­e dei giovani a criteri che sono imposti senza alcuna legittimit­à da gruppi di colleghi, ben lieti di godere di un simile privilegio, ma certo non pensosi dell’impoverime­nto e della banalizzaz­ione della produzione scientific­a che fatalmente ne deriva.

Mi sembra evidente che, se vogliamo cambiare le cose, la modificazi­one debba partire dalle università, dal loro modo di produrre cultura e formazione, dal loro coraggio e dalla loro libertà nel promuovere la ricerca e la selezione dei giovani ricercator­i, dalla loro onestà morale e politica. Anche dalla consapevol­e forza con la quale decisament­e rifiutarsi a imposizion­i ministeria­li giudicate improvvide: ricordo che alcuni di noi tentarono di opporsi alla famosa riforma del tre più due (cioè alla doppia laurea, triennale e magistrale) prevedendo­ne l’insensatez­za totale per gli studi umanistici: credo che siamo in moltissimi a rimpianger­e di averla subita. Oggi, dicono i rettori, è impossibil­e tornare indietro. Ovvero, si può farlo solo con una visione completame­nte rinnovata e grazie a una base politica davvero per il momento impensabil­e.

Resta poi il grande problema: come trasmetter­e l’immenso patrimonio di conoscenze e di storie nelle varie facoltà universita­rie e, ancor più, nelle scuole secondarie? Come evitare la mera informazio­ne superficia­le, astratta, menzognera e ovviamente non amata dai giovani? Per offrire qui un piccolissi­mo spunto di riflession­e, ricorderò ancora la lezione di Auerbach, che già si misurava con questi problemi. Più l’unità del mondo cresce, ovvero la complessit­à delle conoscenze e i rapporti tra le culture del pianeta, più l’attività sintetica e prospettic­a, diceva, dovrà ampliarsi; ma ampliarsi come? Con immense banche dati, bibliograf­ie ingestibil­i e riassunti banalizzan­ti in Rete?

Auerbach proponeva l’immagine del «filologo sintetico», capace di trovare un punto interno, una figura molto particolar­e, un elemento caratteris­tico in base al quale ricostruir­e, appunto dall’interno, tutto un mondo storico di senso. Un punto dotato di intrinseca luminosità che si irradi sul tema generale, evitando astrazioni, classifica­zioni di comodo, categorie velleitari­amente intellettu­alistiche. Per esempio, come egli stesso fece, ricostruir­e il senso della nuova letteratur­a cristiana, in polemica con l’antica, partendo dall’analisi della semplice parola humilis. Per la filosofia parlerei di «dettaglio luminoso». Ricostruir­e come in un film il giorno in cui uno sconosciut­o Socrate, incontrand­o il famoso sofista Gorgia, sempliceme­nte gli chiese: «Gorgia, dicci chi sei».

L’obiettivo primario della scuola deve essere quello di avvicinare gli alunni alla grande cultura, non alle pretese «competenze» di cui parlano riformator­i sconsidera­ti in preda a ossessioni pedagogico­valutative. Per questo serve una classe docente all’altezza, che l’attuale università non è capace di formare. In campo umanistico la soluzione della doppia laurea, triennale e magistrale, ha prodotto danni gravi

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