Corriere della Sera - La Lettura

Il più solitario degli sport (come scrivere)

Tennis Un gioco che al cinema non rende. E che invece alla letteratur­a ha dettato opere memorabili

- di VANNI SANTONI

Chi lo pratica o lo ha praticato, sa che il tennis si svolge anzitutto in un luogo: nella testa dei giocatori. Si tratta inoltre dello sport più solitario che ci sia, dato che i tennisti non possono parlare neanche col proprio allenatore. È forse per via di quest’esasperato solipsismo, di questo deficit relazional­e, che il rapporto tra tennis e cinema non è mai stato facile. Quasi ogni sport ha il suo film: a volte sono capolavori, come Toro scatenato per la boxe; altre, film «soltanto grandi» come Ogni maledetta domenica per il football o L’uomo dei sogni per il baseball, o almeno iconici come Fuga per

la vittoria per il calcio o Karate Kid per il karate; persino uno sport combinato come il wrestling ha il suo filmone, con The Wrestler. Il tennis, niente.

Wimbledon di Richard Loncraine fu solo una brutta esperienza, tanto per

gli spettatori quanto per Kirsten Dunst e Paul Bettany; Match point di Woody Allen rimediò una nomination agli Oscar ma dopo neanche tre lustri è già dimenticat­o. Meglio il doppio misto di Io e Annie, volendo restare su Allen, o ancora L’altro uomo di Hitchcock, i mimi di Blow-up di Antonioni, il «Batti lei?» di Fantozzi o ancora il crollo nervoso di Richie nei Tenenbaum, e viene allora da pensare che, troppo solitario per un intero film, il tennis sia più adatto a incarnarsi in singole scene.

Va meglio coi libri. Anche nel massimo tempio tennistico non mancano del resto i rimandi letterari: l’ingresso del Campo Centrale di Wimbledon reca una frase di Rudyard Kipling, «Possa tu trattare trionfo e disfatta, quei due impostori, allo stesso modo», e nei pressi del Campo 1 ha sede la più completa biblioteca a tema del mon

do, con 15 mila volumi da novanta Paesi. Il grosso di tale corpus sono manuali e biografie ma, a ben cercare, la letteratur­a c’è. Il primo è Musil, che in Quando pa

pà imparava il tennis, del 1931, lamentava la trasformaz­ione del più aristocrat­ico degli sport in attività di massa. Troviamo poi del tennis nel Giardino

dei Finzi-Contini del nostro Giorgio Bassani (che fu anche campione regionale per il Circolo Marfisa d’Este di Ferrara), dove il protagonis­ta, espulso dal suo circolo per via delle leggi razziali, proprio come Bassani dal Marfisa d’Este, trova rifugio, e possibilit­à di giocare, nel giardino del titolo, dotato di campo. Sei anni dopo — Il giardino dei Finzi-Contini è del ’62 — arriva

Twynam of Wimbledon, del i z i osa non-fiction narrativa del Pulitzer John McPhee dedicata all’uomo che fu giardinier­e capo di Wimbledon per quarant’anni, e l’anno successivo l’ancor più sublime Levels of the game, in cui McPhee racconta la tesissima semifinale di Forest Hill del ’68 tra il nero Arthur Ashe e il bianco Clark Graebner — e se queste storie vi sembrano familiari, forse è perché le avete lette: Adelphi, che recentemen­te ci ha dato anche l’eccellente galleria di pionieri

Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola, le ha infatti raccolte nel volumetto unico Tennis, del 2013, anno in cui arriva in Italia, per 66thand2nd, anche Terribile splendo

re di Marshall Jon Fisher, sull’ancor più simbolica semifinale di Coppa Davis del ’37 tra Germania e Stati Uniti, che vide Don Budge, primo vincitore di un Grande Slam, contrappos­to al barone Gottfried von Cramm. Prima di arrivare a Fisher (o magari al messicano Álvaro Enrigue, che in Morte im

provvisa, del 2015, racconta un’immaginari­a partita di tennis tra Caravaggio e il poeta Francisco de Quevedo), c’è però una tappa cruciale. E non parliamo di Il tennis, Strindberg e l’elefante di Lars Gustafsson, godibile romanzo del ’77 in cui un intellettu­ale svedese finito in un campus Usa scopre la dimensione fisica della vita attraverso il tennis, né del mediocre Match ball di Antonio Skármeta, dell’89…

Il lettore avveduto avrà già capito dove intendiamo arrivare: il tennis è infatti uno dei pochi sport ad aver avuto uno dei maggiori scrittori di sempre tra i suoi cantori. David Foster Wallace, certo. E non tanto per i saggi contenuti in Tennis, trigonomet­ria e tor

nado o I l t e nni s c o me e s pe r i e nza religiosa: il vero monumento letterario wallaciano a quello che lui stesso considerav­a il più bel gioco al mondo è Infinite Jest.

Non sono i suoi Roger Federer e Pete Sampras, pur mirabilmen­te descritti, a testimonia­re l’amore per il gioco di Wallace e la sua capacità ineguaglia­bile di raccontarl­o, ma Ortho Stice, Michael Pemulis, John Wayne e Hal Incandenza, gli studenti della Enfield Tennis Academy, poiché, per quanto vari siano i temi che tocca, Infinite Jest è anche il miglior romanzo sul tennis scritto finora. Solo chi ha giocato a li

vello agonistico può parlare di tennis, diceva il (brevemente) n°1 Atp Mats Wilander, e se è vero che tanto Wallace quanto Fisher e Bassani lo hanno fatto (l’autore del presente articolo rivendica, a titolo di legittimit­à almeno per esso, l’appartenen­za al perdentiss­imo, ma pur sempre agonistico, team under-16 del Circolo Tennis Montevarch­i), questo ci porta al libro a cui hanno pensato tutti al solo approcciar­e questa pagina: Open di Andre Agassi (con J.R. Moehringer), rispetto al quale è forse l’ora di ammettere che è veramente strepitoso solo il primo capitolo, ma a cui va riconosciu­to il merito di aver rilanciato, da solo, un intero filone, e aver fatto del tennis lo sport che annovera sia il miglior romanzo che il miglior memoir: non male per qualcosa di così solipsista. Ma non lo è, in fondo, anche la letteratur­a?

L’autore La visualizza­zione è stata realizzata da Davide Mancino (1983), informatio­n designer. Il suo profilo Twitter è @davidemanc­ino1

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Un giovanissi­mo David Foster Wallace (1962-2008) con la racchetta, nella foto di un annuario scolastico. Molti suoi testi parlano di tennis: saggi come Il tennis come esperienza religiosa e il romanzo Infinite Jest (entrambi Einaudi)
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