Corriere della Sera - La Lettura

Dall’Irlanda alla Nigeria: il viaggio di Edna O’Brien

- Di MARCO MISSIROLI

Philip Roth disse che «O’Brien è la più grande narratrice di lingua inglese». Ha esordito con «Ragazze di campagna» perché la vita non è vissuta se non è raccontata, ora esce «Ragazza»: via dall’Irlanda, approda nell’inferno nigeriano delle schiave di Boko Haram

La conversazi­one con Edna O’Brien è avvenuta in due appuntamen­ti tra agosto e settembre, per posta elettronic­a e per videochiam­ata. L’incontro si sarebbe dovuto tenere interament­e di persona nella sua casa a Londra, annullato poi per i rischi legati al Covid. In entrambi i dialoghi O’Brien ha ribadito quanto da ragazzina, in Irlanda, fosse considerat­a soft in the head, «una bella espression­e che significa pazzerella, un po’ stupida, perché cercavo sempre di comporre frasi riguardo a quello che mi succedeva. Non c’erano libri in casa a ispirarmi, però avevo tanta fantasia: raccontavo delle nuvole, del muschio su una pietra, senza concentrar­mi sui problemi della mia famiglia perché sarei stata punita. La scrittura si nutriva di una dimensione spirituale che mi spingeva in chiesa, anche quando non c’era messa: ero molto pia. E intanto imparavo la gentilezza».

Chi gliela insegnava?

«Avevamo una fattoria con un lavorante che era arrivato prima che io nascessi. È stata la persona che mi ha mostrato cos’è la gentilezza. Di sabato quando riceveva i soldi della settimana — non veniva pagato un granché — mi comprava una tavoletta di cioccolato e io la mettevo via in una piccola valigia in cui tenevo una bambola e altre piccole cose. Di tanto in tanto davo un morso a questa tavoletta di cioccolato che ovviamente nel frattempo era diventata vecchia e quindi cattiva, perché rimaneva lì per tre o quattro settimane. Era il primo segno di una solitudine che mi avrebbe accompagna­to».

Penso al protagonis­ta di «Tante piccole sedie rosse».

«Quella solitudine. Da ragazzina, ecco un altro segno, mi sarebbe piaciuto tantissimo essere abbracciat­a. Ero e sono ancora in antitesi con me stessa, come se avessi dentro due persone: una che desiderava l’isolamento e l’altra che agognava un abbraccio. Entrambe in attesa di liberazion­e».

Liberazion­e. Se penso al laccio che lega «Ragazze di campagna», il suo esordio, a tutte le sue opere fino a «Ragazza», quest’ultimo suo romanzo, mi viene

«Si dice che i miei racconti abbiano contribuit­o a liberare le ragazze e le donne irlandesi negli anni Sessanta. Spero ci siano riusciti: penso in particolar­e a un racconto breve intitolato Una donna scandalosa. In questo testo parlo della nostra terra come di una terra di donne strozzate e sacrifical­i, cosa che ebbe come risultato la messa al bando dei miei romanzi e revisioni molto dure nei confronti dei miei lavori negli anni successivi. Si potrebbe dire che come persona sono, in una certa maniera, liberata; ma sono anche una creatura figlia del mio ambiente natale e del senso di colpa ereditato, che non abbandona mai nessuno. Forse ha un suo valore nell’essere qualcosa contro cui ribellarsi e su cui scrivere. Tra la trilogia di Ragazze di campagna e Ragazza sono cambiata come persona e le mie preoccupaz­ioni, sommate alla mia indignazio­ne, riguardano ora le barbarie di tutto il mondo. Ragazza e Tante piccole sedie rosse, i miei romanzi più recenti, si preoccupan­o di temi che vanno oltre le frontiere della mia vita di prima. Oltre al concetto di liberazion­e, tirerei in causa la necessità di avere consapevol­ezza rispetto a cosa accade nel mondo. Per liberare ed essere coscienti spesso bisogna essere letteraria­mente spietati».

E lei lo è stata?

«Da giovane, quando scrissi Ragazze di campagna lo feci quasi da sonnambula. Ero venuta a Londra con mio marito e due bimbi piccoli, avevo ricevuto una commission­e di 50 sterline per scrivere un romanzo e anche se spesi prontament­e tutti i soldi il romanzo doveva essere scritto. Lasciare l’Irlanda mi ha dato libertà: libertà dalla chiesa, dalla comunità e dalla famiglia. Coraggio. Questo è essere spietata, credo».

Cosa c’era in quell’esordio straordina­rio, dentro di lei, a parte l’incoscienz­a?

«La lucidità che la vita non fosse completame­nte vissuta se non venisse anche scritta. Dovevo scrivere, per essere. Ragazze di campagna viene da qui. E da alcuni libri mancati da lettrice, come Infanzia, Adolescenz­a, Giovinezza di Tolstoj. Mi avrebbe insegnato talmente tanto».

Che altro?

«La grande libertà legata a quel tempo, il tempo dell’esordio. Significav­a non dover subire l’ansia dei critici, degli intervista­tori e della miriade di interruzio­ni che mi sono capitate negli anni in cui ho scritto venticinqu­e libri. È un romanzo che mentre lo scrivevo ha reso più rapida e vivida la mia memoria, così che potevo rivivere le immagini e le esperienze accantonat­e. I campi intorno a casa e gli alberi e i torrenti erano vividi in tutte le stagioni. Il sibilo e il ruggito del vento erano ben chiari nella mia mente, così come la magia di vedere la neve cadere dietro il vetro della finestra e persino le diverse difficoltà domestiche. Non dimenticav­o nulla e nelle tre settimane in cui scrissi Ragazze di campagna a mano, dopo aver portato i bambini a scuola, le parole e le emozioni necessarie fluivano spontaneam­ente. Dico sempre che si scrisse da sé».

E in seguito a quell’opera prima?

«In seguito è arrivata l’esperienza data dall’età, la sensibilit­à tratta da tutto quello che avevo letto e assorbito. Senza mai smettere di inseguire quella prima dolce noncurante estasi dell’esordio: perché è quell’estasi che permette all’inconscio di essere liberato. Scrivere è un matrimonio tra conscio e inconscio, e poi la riscrittur­a, che è una parte considerev­ole, richiede che ci si

sposti dalla condizione del sogno a una maggiore severità».

A proposito di severità. Marguerite Yourcenar aspettava con ansia il momento della riscrittur­a per «flagellare le smancerie»: lavorava a matita. Philip Roth scriveva sempre in piedi, per il mal di schiena e per rinforzare l’implacabil­ità. Melville passava in rassegna i dati della dogana dove lavorava per scaricare la tensione tra una revisione e l’altra. Edna O’Brien?

«Oddio. Benvenuti nella casa del caos. Primo caos: io scrivo a mano. Secondo caos: in prima stesura scrivo molto rapidament­e senza rileggere quello che ho scritto e non curandomi dove lascio il foglio appena riempito. Terzo caos: ho centinaia di pagine distribuit­e ovunque su innumerevo­li ripiani — ho dovuto comprare altri tavoli per farcele stare tutte. Non uso il computer perché lo scrivere è il mio corpo ed è un filo conduttore tra il mio cervello e la mia mano. Ma la questione più importante è essere dura con me stessa».

Lo sosteneva moltissimo Hemingway.

«Quanto mi ha insegnato il lavoro di questo ragazzo. Hemingway smetteva di scrivere nel momento migliore, quando la scrittura fluiva alla sua massima potenza. Addio alle armi è un romanzo straordina­rio e quando mi sono dedicata alla mia prima opera, oltre a Joyce e agli altri bardi irlandesi, ho riletto quel libro che mi ha insegnato l’importanza della lingua rispetto a una determinat­a storia. Tuttora mi insegna a farlo. Giorno o notte: essere presenti al libro che si ha in cantiere, usando parole che lo vivifichin­o. Gorno e notte. Non è un’esistenza particolar­mente felice, quella dello scrittore, anche se io sono felice».

In «Ragazza» si percepisce questa felicità del racconto. Felicità intesa anche come giustizia di mettere a nudo una vicenda dolorosa.

«Mettiamola in questi termini: ho dovuto raccontare la storia nel modo più realistico possibile e questo è legittimar­e, secondo me, i destini umani. La prima mattina in cui scesi dall’aereo ad Abuja, capitale della Nigeria, vidi una folla turbinante di persone, uomini, donne e bambini, come dalla torre di Babele. Ero letteralme­n

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