Corriere della Sera - La Lettura

Non portate a scuola l’italiano di una volta

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Quando si parla di ricerca, si guarda sempre al futuro; quando si parla di scuola, al passato. Dalle scienze (tutte, anche quelle umane e sociali) ci si aspetta che vadano avanti: che esplorino nuovi territori del sapere, che facciano nuove scoperte, che trovino nuove soluzioni. Quando si parla di scuola, sembra quasi che l’unica soluzione sia tornare indietro: alle antiche certezze del vecchio metodo di una volta. Un atteggiame­nto che riguarda anche — forse, soprattutt­o — l’insegnamen­to della lingua italiana: dai nostalgici di quando c’era egli, ai rimpianti per il (tra)passato remoto e più in generale per la monolitica grammatica tradiziona­le.

La macchina del tempo

Se qualcuno sostenesse che bisogna tornare a studiare la geografia o la biologia o la stessa storia su libri che risalgono a più di cinquant’anni fa, l’affermazio­ne suonerebbe bizzarra. Il mondo nel frattempo è cambiato, sono cambiate le nostre conoscenze: su molte cose gli studi hanno modificato radicate convinzion­i o proposto nuove interpreta­zioni. Quando si parla della lingua italiana, invece, si può tranquilla­mente affermare — suscitando anche un certo consenso — che bisogna tornare a prima del Sessantott­o.

Come se un’avversione ideologica potesse cancellare in un colpo solo mezzo secolo di evoluzione della lingua e della società italiana e mezzo secolo di studi sulla lingua, il suo funzioname­nto, il suo apprendime­nto. Mezzo secolo in cui l’italiano, da lingua elitaria di una ristretta minoranza della popolazion­e, è diventato prima la lingua quotidiana­mente parlata da quasi tutti gli italiani e le italiane (grazie, almeno in parte, alla television­e) e poi anche quotidiana­mente scritta (meglio sareb

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