Corriere della Sera - La Lettura
Non portate a scuola l’italiano di una volta
Quando si parla di ricerca, si guarda sempre al futuro; quando si parla di scuola, al passato. Dalle scienze (tutte, anche quelle umane e sociali) ci si aspetta che vadano avanti: che esplorino nuovi territori del sapere, che facciano nuove scoperte, che trovino nuove soluzioni. Quando si parla di scuola, sembra quasi che l’unica soluzione sia tornare indietro: alle antiche certezze del vecchio metodo di una volta. Un atteggiamento che riguarda anche — forse, soprattutto — l’insegnamento della lingua italiana: dai nostalgici di quando c’era egli, ai rimpianti per il (tra)passato remoto e più in generale per la monolitica grammatica tradizionale.
La macchina del tempo
Se qualcuno sostenesse che bisogna tornare a studiare la geografia o la biologia o la stessa storia su libri che risalgono a più di cinquant’anni fa, l’affermazione suonerebbe bizzarra. Il mondo nel frattempo è cambiato, sono cambiate le nostre conoscenze: su molte cose gli studi hanno modificato radicate convinzioni o proposto nuove interpretazioni. Quando si parla della lingua italiana, invece, si può tranquillamente affermare — suscitando anche un certo consenso — che bisogna tornare a prima del Sessantotto.
Come se un’avversione ideologica potesse cancellare in un colpo solo mezzo secolo di evoluzione della lingua e della società italiana e mezzo secolo di studi sulla lingua, il suo funzionamento, il suo apprendimento. Mezzo secolo in cui l’italiano, da lingua elitaria di una ristretta minoranza della popolazione, è diventato prima la lingua quotidianamente parlata da quasi tutti gli italiani e le italiane (grazie, almeno in parte, alla televisione) e poi anche quotidianamente scritta (meglio sareb