Corriere della Sera - La Lettura
È turchese il colore della vita
Quello di Ellen Meloy è un nome relativamente poco conosciuto anche in America. La voce che le dedica Wikipedia è scarna e poco attraente, limitandosi di fatto alle date e ai luoghi della nascita (nel 1946 in California, a Pasadena) e della morte (a Bluff, nello Utah, nel 2004), e a poche altre circostanze di una vita che invece, come apprendiamo dai suoi libri, fu piena fino all’orlo di libertà, avventura, conoscenza. La bellezza della sua scrittura, d’altra parte, non poteva passare del tutto inosservata, e Antropologia del turchese, il libro pubblicato nel 2002 e ora tradotto da Sara Reggiani, è stato finalista al Premio Pulitzer.
Questa traduzione italiana, così efficace e scrupolosa nei dettagli, si presenta quasi più come un atto di devozione che come una proposta editoriale, ed è la prova che la qualità vera, l’originalità, l’indipendenza del carattere possiedono una capacità di durata e circolazione del tutto indipendente dalle mode e dalle patacche.
La prima cosa che viene da dire su Ellen Meloy è che era un essere umano che sembra aver trascorso la sua esistenza in uno stato di eccezionale intensità. Non ha raggiunto i sessant’anni, ma di queste persone in fin dei conti è davvero difficile stabilire se abbiano avuto una vita lunga o breve. Era dotata di qualità percettive sicuramente fuori dal comune, ovviamente esaltate dall’esperienza degli spazi deserti in cui ha trascorso la maggior parte dei suoi giorni. Ogni scrittore di luoghi e di viaggi che abbia l’ambizione di rendere in qualche modo visibile alla mente dei lettori ciò che descrive, organizza i dati dell’esperienza in modo imprevedibile e arbitrario, ma comunicando un senso di necessità rivelatrice. Come se quella soggettività fosse la chiave che spalanca, in modo temporaneo ma indelebile, la verità del mondo. Sta qui il trucco, e non è facile da eseguire.
In Ellen Meloy colpisce la fedeltà assoluta al colore e ai suoi messaggi più profondi e meno evidenti, che la collega in maniera diretta e dichiarata agli studi di Goethe e di Kandinskij. Ma la scrittrice californiana sa parlare dei colori anche come potenti veicoli di memoria, quasi costringendo la vista agli stupefacenti automatismi dell’olfatto e del gusto. A questo cromatismo assoluto è subordinata anche la forma degli oggetti, che sembra farsi strada lentamente nella pagina di Ellen Meloy, non come un dato di partenza da riprodurre verbalmente in un modo o nell’altro, ma come la conseguenza di leggi infallibili, che eccedono il tempo e la sensibilità degli uomini.
A volte, molto raramente, Ellen Meloy sbaglia per un eccesso di informazioni che ci impedisce di partecipare al processo, ma è così brava che non esiterei (e non sono il primo a farlo) ad accostarle il nome di Henry David Thoreau e il suo immortale Walden. Non sono certo pochi