Corriere della Sera - La Lettura
I nostri viaggi ai confini del mondo «Lì dove fa male»
Samanta Schweblin e Pablo Ernesto Piovano non si conoscono di persona, ma hanno molto in comune. L’origine argentina, certo; la stessa generazione spersa. Ma soprattutto una sensibilità che ha portato entrambi, da percorsi e con mezzi diversi, negli stessi luoghi lontani e disturbanti: «Lì dove fa male».
La prima è una scrittrice, ha 42 anni, vive a Berlino e un Premio Nobel per la Letteratura poco ciarliero come il sudafricano J. M. Coetzee consiglia la lettura dei suoi romanzi, tradotti ormai in ogni lingua possibile, dal macedone all’ebraico. Dallo schermo del pc, Schweblin incassa la testa tra le spalle e si schermisce: «Non vanno a me i complimenti, ma ai libri». Sarà al Festival Babel di Bellinzona.
Il secondo è un fotografo, ha compiuto 39 anni il giorno in cui si è collegato via Skype con «la Lettura», confinato nel suo appartamento di Buenos Aires — era riuscito a procurarsi una torta e sarebbe andato di lì a poco a condividerla col papà. Ha vinto premi (tra cui un World Press Photo) e prestigiose borse di studio; ha documentato a lungo i danni (piaghe, malformazioni, tumori) del glifosato e degli altri cocktail chimici impiegati in agricoltura. Ora il Festival della Fotografia Etica di Lodi mostra il suo lavoro — Il risveglio di voci antiche — nelle terre che i Mapuche contendono a Cile e Argentina.
Li abbiamo incontrati virtualmente, scrittrice e fotografo, in due momenti diversi della stessa giornata, su due distinti fusi orari, e — grazie a un’intesa spontanea — li abbiamo messi in dialogo.
Partiamo dal fondo. L’esperienza comune del confinamento per il coronavirus; la paura di un nemico nuovo e invisibile: come l’avevete vissuta, entrambi sorpresi lontano dai luoghi abituali di residenza?
Il lockdown mi ha colto nella settimana di marzo in cui avevo deciso di andare a trovare mia madre in un paesino sperduto all’estremo sud della Patagonia, Lago Puelo: ci sono rimasta quasi tre mesi. Mia madre vive in una casetta di legno piccolissima, mi era difficile lavorare. Allora ho affittato una specie di fienile in fondo al lotto di un vicino, molto rudimentale, e andavo lì tutti i giorni a scrivere. Per farlo dovevo attraversare l’aperta campagna, mucche, cavalli... Pensare che vivo a Berlino e che la settimana prima di partire ero stata a insegnare all’Università di Barcellona: mi sono all’improvviso ritrovata nel nulla, con la luce delle lanterne, a bere mate, sotto la pioggia, ogni tanto senza acqua e senza rifornimenti...
Quando hanno cominciato a chiudere le frontiere, io mi trovavo in Cile a seguire le rivolte popolari, in quel momento all’apice. Tutti i giorni manifestazioni, in un miscuglio di Woodstock, per l’allegria, e di Rivoluzione francese. Ero immerso in tutto questo, quando ho capito che stavano bloccando i voli: ho preso l’ultimo per Buenos Aires.
Un c o n f i n a mento l u n g h i s s i mo, quello dell’Argentina, cominciato insieme con l’Europa e ancora rigidamente in vigore.
C’è una grande differenza nella gestione del Covid tra Berlino e Buenos Aires. Innanzitutto, l’Europa ha i soldi per risolvere la crisi sanitaria in modi diversi. In America Latina c’è un solo strumento: la quarantena, null’altro. L’Argentina ha cominciato presto e bene. Ma se in Europa la gran parte della gente può permettersi il lusso di restare a casa, la gran parte dei latinoamericani se resta a casa non mangia: de