Corriere della Sera - La Lettura
« Gli indigeni in Argentina sono invisibili: via dalle strade, dai media, dalle coscienze. Sappiamo di loro solo ciò che tramandano i colonizzatori»
Credo che la ragione stia nel meccanismo della letteratura, quando scriviamo e quando leggiamo: in modo intuitivo o cosciente, cerchiamo di confrontarci con i mostri, con le paure, vogliamo metterci alla prova. Mi trovo lì, sarei capace di sopravvivere? Come? Quanto mi farebbe male confrontarmi con qualcosa di simile? Forse i punti in comune con la fotografia vengono da qui: da prospettive diverse, stiamo cercando entrambi di capire quanto fa male, quanto duole. Al corpo, alla testa, alla società. Non semplicemente mostrare, esporre. Ma cercare di capire come e dove fa male. Come se tentassimo di testarci davanti a queste cose. Le foto di Pablo in più sono capaci di rendere concreti, visibili, questi danni: sulla pelle, nella carne. Non si tratta di vaghe malattie astratte, per quanto terribili.
Io considero l’uso di questi agenti chimici come un crimine di lesa natura. Il mio lavoro guarda sempre prima ai datori di vita, la terra, l’acqua. E poi dietro ci sono gli uomini, inevitabilmente. In vent’anni l’uso di questi prodotti ha cambiato la matrice produttiva del Paese, ma anche la salute di un quarto di argentini: 13 milioni di persone, esposte in maniera diretta o indiretta alle esalazioni tossiche.
Un ultimo spunto di riflessione comune: l’uso maldestro, distratto o immorale della tecnologia nel romanzo «Kentuki» di Schweblin (ancora Sur). Quanto ci aiuta, per esempio, un’App a circoscrivere il virus? Quanto rischia di farci perdere il controllo?
Un amico mi ha fatto questa osservazione: durante la Seconda guerra mondiale la gente ha dato la vita per la libertà, ora nella crisi del Covid sta dando la libertà per la vita. Si sono invertiti i valori. È una realtà che, se tutti avessimo quest’App e funzionasse, il virus scomparirebbe in 15 giorni; ma è anche vero che si tratta di qualcosa di molto pericoloso nelle mani sbagliate. Due verità che convivono. La domanda che mi pongo in Kentuki è — al di là dell’idea orwelliana di una grande istituzione che sa tutto di noi, idea che non confuto — quanti danni ci causiamo tra di noi, come utenti di questa tecnologia? Utenti che non sembrano conoscere i limiti morali, politici, legali di quello che maneggiano. Non è un romanzo tecnologico, è una riflessione su un problema che abbiamo con noi stessi, attraverso la tecnologia.
Certo è un tema che preoccupa. Il controllo è evidente. Ma credo che non sia così distante da quello di cui abbiamo parlato finora. Lo diceva già Kissinger (allora segretario di Stato Usa, ndr) negli anni Sessanta: controllare acqua e alimenti per restare al comando. È quel che hanno fatto, senza che ce ne rendessimo conto. L’acqua la vendono in bottigliette e hanno un dominio totale su quello che mangiamo: così controllano la nostra salute e quindi la nostra libertà. Mi sembra legato a questo il controllo sulle reti sociali, attraverso le quali conoscono addirittura le nostre emozioni. Perché siamo noi stessi a denudarci. La colpa, ancora una volta, è nella nostra distrazione, siamo noi a permetterlo. E al fondo di questa dimenticanza io sono convinto che ci sia la disconnessione con gli elementi come acqua e terra. È questa rottura della relazione con il sacro che ci sta trasformando in stupidi, ci allontana da ciò che è importante. Non sto parlando di spiritualità né di esoterismo, ma di una relazione semplice, diretta e saggia. Come insegnano i popoli originari, dovremmo tornare a «ringraziare» l’acqua e la terra.
Alessandra Coppola