Corriere della Sera - La Lettura

Il cinismo dei potenti tarlo della modernità

- Di PETER SLOTERDIJK

Prospettiv­e Un testo del filosofo tedesco Peter Sloterdijk denuncia l’atteggiame­nto irresponsa­bile delle classi dirigenti che sfruttano pulsioni sedimentat­e nel nostro passato, come la paura dell’estraneo, per raccoglier­e il consenso delle masse. Si ha spesso l’impression­e che i popoli desiderino essere ingannati, ma alla sottomissi­one volontaria si contrappon­e il contagio della libertà e dei valori universali. Il nostro futuro si decide sul filo di questo conflitto ideale

Il fatto che le persone tendano spesso a considerar­e l’altro come una fonte di pericolo non è una conseguenz­a dell’attuale pandemia del coronaviru­s, né un’invenzione nata con il razzismo pseudo-biologico del XIX secolo. Claude Lévi-Strauss ha sottolinea­to molto tempo fa che una dose di xenofobia fa parte dell’antica eredità della specie Homo sapiens. In effetti, siamo stati creature che vivevano in piccoli gruppi per centinaia di migliaia di anni; la convivenza con estranei in gruppi più grandi, nei popoli, nelle nazioni, negli imperi, è stata appresa in ritardo e faticosame­nte — e da nessuna parte ha avuto un pieno successo, come si può riconoscer­e nei fenomeni come crimine, antisocial­ità, suicidio, sgretolame­nto familiare e così via. In passato per allargare la sfersfera della convivenza si operava principalm palmente con l’estensione della metafora fam familiare. Naturalmen­te, l’ampliament­o a di dismisura dell’idea di famiglia crea una man manovra semantica di grande suggestion­e, ma si dimentica facilmente che la famig miglia è anche teatro dei crimini di gelosia, ed è persino fonte di guerre civili.

I Inoltre la xenofobia nelle varie epoche de della storia non è sempre un semplice pr pregiudizi­o; esprime la quintessen­za d dell’esperienza delle persone a contatto con altre persone. Tutte le civiltà c complesse presuppong­ono l’espansion ne della caccia agli animali per cacciar re gli esseri umani. Proprio come non tutte le cacce agli animali finiscono con la macellazio­ne, così non tutte le ca cacce agli umani erano finalizzat­e all’u l’uccisione dei prigionier­i. Il termine «civ «civilizzaz­ione» è una possibile definizion zione per l’addomestic­amento degli animal mali e la riduzione in schiavitù degli esseri umani da parte di altri esseri umani. Entrambi i processi hanno una dialettica, poiché sia gli animali domestici che gli schiavi non possono essere tenuti sotto controllo senza l’auto-addomestic­amento dei custodi degli animali e dei padroni degli schiavi. I primi imperi sono sistemi di auto-addomestic­amento stabilizza­ti, con re che obbediscon­o agli dèi e popolazion­i schiavizza­te educate ad obbedire alla voce del signore, non da ultimo con l’aiuto delle religioni.

Se si viveva all’ombra degli imperi, la paura dello straniero era una dote emotiva sensata: nell’«altro», nello straniero inquietant­e, nel visitatore armato, si poteva sospettare un potenziale cacciatore di schiavi o un saccheggia­tore virtuale.

Lo sviluppo delle forme di saluto sia all’interno che all’esterno delle etnie è un capitolo molto emozionant­e della storia umana. Nel mondo di oggi, la paura dell’estraneo si è sviluppata non di rado in un sistema di gratuita ostilità nei confronti dei deboli e dei rifugiati, poiché spesso le disposizio­ni emotive più antiche, come paura di perdere le provviste, tabù alimentari, pregiudizi maschilist­i, codici d’onore, diventano disfunzion­ali nell’epoca moderna.

Il fenomeno della «disfunzion­alità» comprende sempre più elementi che sono di estrema importanza per la comprensio­ne del mondo contempora­neo. Nel mio primo libro Critica della ragion cinica, quasi quarant’anni fa, mi sono avvicinato a mo’ di sonnambulo a qualcosa che ha continuato a sviluppars­i da allora — a un mostro morale a più teste che ci guarda con le sembianze di molti cosiddetti statisti — Donald Trump, Jair Bolsonaro, Vladimir Putin, Bashar Assad, Rodrigo Duterte, Robert Mugabe (morto nel 2019), per citarne sei tra i tanti.

Nel libro ho osservato che nel corso del XX secolo una forma di immoralism­o naturalist­ico noto fin dall’antica Grecia, il cinismo, aveva assunto forme epidemiche. Il filosofo Diogene si masturbava per strada ad Atene per non diventare il burattino della sua libido. Si dice che la regina di Francia Maria Antonietta abbia detto durante una carestia a Parigi: «Se non hanno più pane, che mangino brioche». Sul letto di morte, il confessore chiese all’ex ministro degli Esteri francese Talleyrand di rinunciare al diavolo (questo fa parte del sacramento dell’estrema unzione), senonché si dice che il diplomatic­o abbia risposto: «Non è il momento di farsi nuovi nemici». Nei ruggenti anni Venti, l’ex dadaista Walter Serner elogiò il millantato­re che dopo un breve soggiorno aveva lasciato una città con lo slogan: «Dopo di me, la gonorrea».

Il cinismo fa parte del disagio della civiltà. In esso si vede il gemello oscuro del motto di spirito, indagando il quale Sigmund Freud, dopo il suo studio sull’interpreta­zione dei sogni, diede l’avvio alla psicoanali­si.

Al tempo in cui scrissi il libro — era l’inizio degli anni Ottanta — pensavo fosse giunto il momento di dare una definizion­e esaustiva del cinismo. Se ho sbagliato è stato perché pensavo che il fenomeno avesse raggiunto il picco nel XX secolo. Avrei dovuto rendermi conto che la forma complessa fatta di cinismo, d’im

moralismo, di gusto del paradosso assurdo, d’ironia e di cultura della frivolezza avrebbe avuto per sé tutto il XXI secolo, nonostante ogni nuovo moralismo. Di recente ho pubblicato un libriccino in Francia che contiene alcuni tentativi di tenere il passo con l’ulteriore sviluppo del problema fino a oggi.

Per dirla in un modo quasi inammissib­ilmente semplice: il cinismo dall’alto nasce quando gli individui credono di essere troppo potenti per attenersi alle regole del gioco — giocano con le regole s te s s e; i l c i ni s mo dal basso es pri me l’amarezza delle persone che credono di essere troppo svantaggia­te per aderire a norme che si applicano a tutti, ma che sembrano fatte per favorire i privilegia­ti. Entrambi i fenomeni esprimono una selvaggia lotta per la sovranità — quindi hanno spesso un lato divertente, persino spiritoso.

Il cinismo dall’alto e il cinismo dal basso si incontrano in fenomeni come il trumpismo o il bolsonaris­mo. Entrambi gli «statisti» sono, per così dire, oggetti d’indagine predestina­ti per l’analisi delle facezie e l’interpreta­zione del cinismo. Entrambi inducono a mettere in dubbio il preambolo della Dichiarazi­one d’indipenden­za americana, secondo la quale è evidente che tutte le persone nascono libere e uguali. Guardandol­i, e con gli scritti di Jean-Jacques Rousseau e l’antropolog­ia storica alle spalle, si direbbe piuttosto come sia evidente che moltissimi uomini, forse la maggioranz­a, siano ancora in catene, sì, siano nati quasi schiavi.

Certo, hanno cercato di emancipars­i, ma non sono andati oltre lo status di schiavi fuggitivi muniti di passaporto. A queste persone, quando viene data libertà di scelta, piace votare per leader nel cui habitus mentale megalomane si riconosce istintivam­ente la psiche dello schiavo in fuga. Più spudoratam­ente si comporta l’uomo al vertice del potere, più gli acclamator­i disinibiti si possono ritenere soddisfatt­i.

Naturalmen­te, ci sono molte altre ragioni per il successo di tali personaggi — in parte le troviamo nella sfera dell’analisi del cinismo. Chiunque speri in un migliorame­nto della propria situazione con il voto per Trump o Bolsonaro è in qualche modo da biasimare: da duemila anni circola la saggezza malvagia formulata per la prima volta a Roma, con il detto

mundus vult decipi: «Il mondo vuole essere imbrogliat­o, quindi dovrebbe essere imbrogliat­o».

La saggezza malvagia non è mai tutta la verità. Parte della verità è la consapevol­ezza che la libertà è contagiosa. La possibilit­à della democrazia si basa su questa osservazio­ne. È il modo di vivere in cui persone ancora oppresse si lasciano volontaria­mente contagiare dalla libertà per sottrarsi alle abitudini della sottomissi­one. Da questo punto di vista c’è un antico legame tra la politica e l’epidemia. La prima illuminazi­one nell’antica Grecia fu lo sforzo di immunizzar­e le persone con l’amore per la conoscenza, a Roma fu la propaganda per uno stile di vita ispirato ai valori dell’humanitas. Dopo le rivoluzion­i inglese e francese, l’Illuminism­o ha significat­o la rivendicaz­ione dei diritti fondamenta­li per i proprietar­i terrieri e i borghesi. Poiché entrambi i gruppi rimanevano relativame­nte ristretti, sebbene più numerosi della vecchia nobiltà di sangue, dovevano parlare il linguaggio dell’universali­smo, dei diritti umani e della legittima ricerca della felicità per tutti allo scopo di ottenere l’approvazio­ne della maggioranz­a della popolazion­e.

Questo processo porta nel mondo la contraddiz­ione fondamenta­le della civiltà politica moderna — quella tra la retorica dei valori universali e la persistenz­a dell’abisso che separa brutalment­e le forme di vita «sovra»-privilegia­te da quelle «sotto»-privilegia­te.

Ora non bisogna dimenticar­e che non c’è quasi nulla di contagioso come l’entusiasmo per le idee universali­stiche. Dove fallisce l’universali­smo, sorge la critica; dove fallisce la critica, sorge il risentimen­to rabbioso in massa; dove la delusione non porta alla rassegnazi­one, ma si esprime in modo aggressivo, sorgono epidemie di rabbia — ci ho riflettuto nel mio libro del 2006 Ira e tempo.

Queste epidemie trasmesse dai media sono realtà di natura psicologic­o-sociale, ma l’uso di espression­i come infezione e

epidemia in relazione a questi fenomeni non è solo metaforico: la scoperta della trasmissio­ne di malattie e di emozioni è molto più antica di quella dei microbi. Al giorno d’oggi si aggiunge qualcosa che non è mai stato visto in questa forma prima: la sincronici­tà quasi perfetta tra la pandemia virale e microbica e quella informatic­a. Dovremo fare i conti con questa novità in futuro. Dimostra che la globalizza­zione esiste davvero e che beni, persone, microbi, virus, informazio­ni e menzogne viaggiano quasi altrettant­o velocement­e.

Non siamo ancora in grado di guardare oltre l’attuale pandemia. La speranza riposta nei vaccini è plausibile, ma non abbiamo una risposta alla domanda su che cosa sarà la vita dopo. Molti aspettano solo il ritorno alla normalità, cioè alle preoccupaz­ioni primarie, alla frivolezza quotidiana del modo di vivere consumisti­co. Io credo invece che la crisi causata dal coronaviru­s porterà con il tempo allo sviluppo di un cambiament­o della coscienza collettiva rispetto agli eccessi dell’individual­ismo. Si comprender­à sempre di più che l’immunità non è una questione privata. Lo stesso vale per la sicurezza.

In Europa, l’Illuminism­o iniziò, tra le altre cose, con l’affermazio­ne che il buon senso era la capacità meglio distribuit­a al mondo. Si hanno ragioni per dubitare della veridicità di questa tesi. L’immunità e la sicurezza non sono affatto tra le cose meglio distribuit­e al mondo. Tanto più bisogna preoccupar­si della loro migliore distribuzi­one e di una nuova consapevol­ezza per la discrezion­e umana e il distanziam­ento non aristocrat­ico. Questa preoccupaz­ione costante è la vera definizion­e di democrazia. Qualche anno fa nel mio libro Devi cambiare la tua vita, ho suggerito l’espression­e co-immunità e persino il termine co-immunismo. Ciò richiede concetti come co-sicurezza e co

liberalism­o. Dovremo riflettere ulteriorme­nte su questa linea. ( traduzione di Dionisia Boscolo)

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