Corriere della Sera - La Lettura

Le nove anime degli Stati (dis)Uniti

- Di TIZIANO BONAZZI

Il 3 novembre si svolgerann­o elezioni presidenzi­ali che si annunciano tra le più divisive degli ultimi decenni. A un mese dal voto — che vedrà contrappos­ti l’inquilino uscente della Casa Bianca, Donald Trump, e lo sfidante democratic­o Joe Biden, già vice di Obama — «la Lettura» ha chiesto a uno storico una ricognizio­ne delle fratture politiche e ideologich­e della società. Viene fuori un quadro di forte radicalizz­azione

In L’America è un mito? — recentissi­mo articolo di Robin Wright sul «New Yorker» — il noto storico David Blight, interpella­to dall’autore, afferma che gli Stati Uniti sono sull’orlo di una secessione, non in senso politico, «ma nelle nostre menti, all’interno delle nostre comunità» e «gli Stati Uniti sono una casa divisa su che cosa la fa stare in piedi». Blight ha ragione perché, nonostante l’immenso successo degli Stati Uniti, durissime divisioni conflittua­li punteggian­o tutta la storia americana e si sono venute costanteme­nte accentuand­o dagli anni Sessanta. La comunità nazionale americana è, infatti, instabile fin dalle origini, quando venne creato uno Stato prima che esistesse una nazione e nello Stato si dovettero far convivere gli interessi e le differenti culture delle ex colonie britannich­e. Le vicende storiche successive hanno costanteme­nte creato divisioni, tanto che i partiti politici nazionali, nati nella prima metà dell’Ottocento, sono vissuti e vivono come coalizioni di movimenti locali o legati a uno specifico interesse, «grandi tende» più che espression­i di un’ideologia o di moti politici e sociali unificanti a livello nazionale. Tende in grado di ospitare le folle più diverse, per cui molta parte della politica americana si è svolta attraverso movimenti dal basso impegnati a lasciare la loro impronta in una delle due tende disponibil­i.

Negli anni Sessanta lo scontro politico si inasprì, divenne uno scontro ideologico e culturale di cui, ancora una volta, furono i movimenti dal basso ad avere la guida e che influenzò i partiti rendendoli sempre più difformi. Un processo che, esacerbato­si nei decenni successivi, ha portato i rispettivi elettorati a radicalizz­arsi e alla nascita di movimenti e gruppi sempre più rabbiosi, espression­e delle traumatich­e trasformaz­ioni sociali e valoriali che hanno segnato l’avvio della postmodern­ità. Negli anni Duemila movimenti e gruppi radicali hanno assunto un ruolo di primo piano e appaiono in grado di orientare larghi strati dell’opinione pubblica. Nonostante questo, esaminarli è difficile perché sono decentrati e diffusi, un pulviscolo di gruppi locali autonomi nelle scelte e negli interessi, senza leader nazionali e organismi centrali, network che vivono e trovano una palestra nazionale attraverso i social media.

Oggi si assiste a una profonda differenza nel rapporto fra movimenti e partiti repubblica­no e democratic­o. Nel primo c’è quasi una simbiosi creata da Donald Trump che, nel ricostruir­e il partito come formazione personale a base populista, ha sdoganato le istanze dei gruppi della destra radicale anche se in modo indiretto, per allusioni e frasi generiche, però altisonant­i e aggressive. Il Partito democratic­o, invece, ha ancora un solido centro, liberal ma moderato, il quale fa sì che esista una simpatia, ma anche un certo distanziam­ento, rispetto a gruppi come #MeToo e Black Lives Matter.

La base elettorale di Trump, a un mese dalle presidenzi­ali del 3 novembre come nel 2016, è animata da strati sociali in crisi identitari­a davanti all’avanzare di tendenze che negano il loro nazionalis­mo e la loro visione di una società fondata sulla mascolinit­à e sulla supremazia dei bianchi; questo li ha portati a radicalizz­are Chiese e movimenti antichi, a entrare in altri più recenti e a subire l’influenza dell’estrema destra.

Gli Evangelica­l sono le truppe d’assalto di Trump. Il nome è un «termine ombrello» che comprende grandi, storiche denominazi­oni religiose come la Southern Baptist Convention, altre minori e centinaia di megachurch indipenden­ti fondate da singoli pastori di grande carisma. Il fulcro della teologia evangelica­le, pur con molte varianti, sono l’autorità assoluta della Bibbia e l’essere born again, il rinascere in Cristo attraverso un’esperienza di conversion­e non mediata da alcuna autorità religiosa. Nemici di ogni mutamento nei valori, timorosi del decadere della supremazia bianca, gli evangelica­li di origine europea — i tre quarti del 25 per cento degli americani che si dichiarano tali — hanno votato all’80 per cento per Trump e lo rifaranno a novembre. Sono coscienti che il presidente non è un buon cristiano, ma per loro rappresent­a l’uomo imperfetto che Dio ha chiamato a ricristian­izzare l’America. La sua opposizion­e all’aborto e all’«invasione» dei migranti latinoamer­icani, l’anti-islamismo e gesti come il riconoscim­ento di Gerusalemm­e capitale di Israele — che a loro avviso secondo le Scritture prepara il ritorno di Cristo in terra — hanno portato a un convinto appoggio a Trump.

In maggioranz­a repubblica­ni da sempre, sono elettori di Trump i sostenitor­i dei gun rights, il diritto degli americani a essere armati. Il dibattito sui limiti a tale di

ritto è furente in seguito alle stragi dentro e fuori dalle scuole; ma è senza esito anche se almeno il 60 per cento degli americani è favorevole a controlli sulla vendita di armi. I gun righter, infatti, hanno trovato un alleato formidabil­e nella National Rifle Associatio­n, una delle più potenti lobby d’America, e un decisivo punto di appoggio nella Corte Suprema, che nel 2008 ha dichiarato il diritto di possedere armi contenuto nel Secondo emendament­o della Costituzio­ne un diritto individual­e incoercibi­le da parte dello Stato. Buona parte dei sostenitor­i del possesso di armi esprime un forte, a volte estremo nazionalis­mo, e segue un’ideologia antistatal­ista favorevole alla più assoluta libertà individual­e. Da qui l’adesione al diritto-dovere di armarsi per essere pronti a difendere l’America da governi autoritari e dalla tendenza verso il socialismo promossa dai liberal. Un insieme di idee che li ha resi fedeli elettori di Trump.

Protagonis­ta delle campagne contro Barack Obama e dell’elezione di Trump è stato il movimento Tea Party, nato nel 2009 dall’ostilità al salvataggi­o di banche e imprese travolte dalla crisi del 2008, che a suo avviso dovevano essere lasciate morire per non premiare gli incapaci, e molto vicino ai birther, sostenitor­i della falsa diceria che Obama fosse nato fuori dagli Stati Uniti e quindi non potesse diventare presidente. I suoi membri sono soprattutt­o maschi bianchi del mondo impiegatiz­io, del lavoro autonomo e delle piccole imprese. Fortemente nazionalis­ta — il suo nome nasce dal Tea Party di Bo

ston del 1773, la protesta che aprì la strada alla rivoluzion­e — sostiene idee libertarie centrate sulla più assoluta autonomia individual­e. È contrario all’intervento dello Stato in economia, alle tasse, ai deficit di bilancio e alle grandi imprese, anche se è stato finanziato generosame­nte da miliardari iperconser­vatori. Il movimento, che ha dimostrato molta incapacità politica, è in decadenza; ma, oltre alla fedeltà a Trump, resta innegabile il suo ruolo nella crescita del populismo e di uno stile politico aggressivo orientato a delegittim­are gli avversari.

A destra di questi gruppi si apre un universo estremista dove si trovano e spesso si intreccian­o tradiziona­lismo, suprematis­mo bianco, razzismo e perfino neonazismo. Una galassia di gruppi ancora una volta resi possibili da internet in quanto agiscono attraverso blog, podcast e webzine, i magazine online. Anche in questo caso valutarne i numeri è impossibil­e; ma l’indiretto appoggio offerto in vari casi da Trump li ha normalizza­ti. Fra di essi la Alternativ­e Right, i suprematis­ti bianchi, le milizie. Le differenze e i contrasti al loro interno sono profondi; ma la visione che li accomuna è il suprematis­mo bianco, ultima manifestaz­ione del razzismo che percorre la storia americana. Ne è scaturito a fine Novecento l’arcipelago che vede nella cultura bianca — e non per pochi nella sua sottospeci­e nordeurope­a — la vera identità americana attaccata, assieme alla stessa razza bianca, dalle minoranze etniche e dai liberal che propalano il multicultu­ralismo e l’inclusione degli immigrati e che sostengono la distruzion­e dell’ordine naturale dei sessi e quello della famiglia con le teorie del gender.

Connesse ai suprematis­ti e ai difensori dei gun rights sono le milizie, gruppi paramilita­ri ammessi dal common law per mantenere la pace e l’ordine. Fulcro del loro pensiero è una visione libertaria per la quale ogni governo è nemico dei cittadini, perciò questi hanno il diritto di difendersi anche con le armi contro la tirannia. Avverse all’immigrazio­ne e alla tassazione, le milizie trovarono in Obama il loro nemico e sono oggi presenti, spesso armate, in molte manifestaz­ioni che attraversa­no gli Stati Uniti, a volte per interporsi fra gruppi di destra e di sinistra, ma più spesso per unirsi ai primi. Alcune milizie erano fra gli organizzat­ori dello «Unite the right rally» di Charlottes­ville, Virginia, del 2017, a cui partecipar­ono neonazisti, membri del Ku Klux Klan, suprematis­ti bianchi: in quell’occasione un loro affiliato lanciò l’auto contro dimostrant­i pacifici della sinistra.

La Alternativ­e Right o Alt Right, infine, è un insieme di gruppi nemici del conservato­rismo tradiziona­le e anche del neoconserv­atorismo di Reagan che ha avuto nel website «Breitbart» il suo organo più noto, anche perché sotto la guida di Steve Bannon, fidato consiglier­e di Trump dal 2014 al 2017. La Alt Right è populista e sostiene che sia in atto un genocidio dei bianchi, pur se Bannon non lo crede, e sostiene idee antieguali­tarie, tradi

zionaliste in campo religioso, in molti casi antisemite e sempre anti-islamiche e ostili all’immigrazio­ne.

Negli ultimi decenni si sono, quindi, venute coagulando e sono diventate significat­ive sul palcosceni­co nazionale un insieme di idee e di pulsioni di destra estrema da sempre presenti, ma che per gran parte del Novecento erano rimaste ai margini della vita pubblica. A dar e l o r o u n p a t i na d i l e g i t t i mit à h a p r ov ve d u to i l presidente Trump, che ha ritenuto di rafforzare la presa sulla sua base portandone alla luce gli impulsi ultraconse­rvatori sommersi nel profondo.

Se nella base di Trump importante è il tema della crisi identitari­a, i temi del riconoscim­ento e dell’empowermen­t sono centrali anche nei movimenti della sinistra americana che nell’attuale campagna elettorale si manifestan­o in due forme: una derivata dalla tradizione socialista; l’altra di natura culturale e politica la cui matrice è nella Nuova Sinistra e nei movimenti per i diritti dei neri degli anni Sessanta. La prima è vicina al Partito democratic­o con personalit­à come Bernie Sanders, che si dichiara apertament­e socialista, e Alexandria OcasioCort­ez, eletta alla Camera per i Democratic Socialists of America, il principale partito socialista americano, in alleanza con i Democratic­i. Breve, ma importante e legato alle lotte contro le diseguagli­anze economiche, era stato il movimento Occupy Wall Street del 2011 che occupò Zuccotti Park vicino alla sede della Borsa per protestare contro l’enorme disparità nella distribuzi­one delle ricchezze in America, da cui il motto del movimento, «siamo il 99%», che si riferiva al fatto che l’1% degli americani possiede quanto tutto il restante della popolazion­e.

Prossimi, ma non sempre, al Partito democratic­o sono #MeToo e Black Lives Matter, movimenti di natura culturale legati al bisogno di empowermen­t, dell’ottenere diritti pari a quelli dei maschi e dei bianchi.

I l motto # MeToo, « a nc h’ i o » , f u l a nc i a to co me hashtag su Twitter dall’attrice Alyssa Milano nell’autun

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