Corriere della Sera - La Lettura
Il vendicatore si guarda allo specchio
questa dunque l a f a cc i a di un ve n d i c a t o r e ! » dissi a me stesso quella certa mattina quando, prima di mettermi in cammino, mi vidi allo specchio. Quella frase uscì perfettamente silenziosa, e al tempo stesso ben articolata; formulandola in silenzio, mossi con estrema chiarezza le labbra, come per leggere il labiale sulla mia immagine riflessa e imprimerla nella mia memoria, una volta per tutte.
Un siffatto monologo, di quelli che, comunque, in una maniera o nell’altra, e non solo negli ultimi anni, spesso intrattenevo con me stesso per intere giornate, in quell’attimo mi parve qualcosa di singolare per la mia persona e, oltre che per me, mi sembrò qualcosa di inaudito, in ogni senso. (...)
Cercando un complice
Come ogni sera della settimana in questione, verso il tramonto (che nel frattempo giungeva sempre più tardi), dopo aver continuato con successo il Non-farniente per un po’, me ne andai al Bar delle Tre stazioni. L’oste — era un gioco che faceva sempre — mi mostrò il risvolto interno del suo vestito nuovo dove, in sospetti caratteri maiuscoli, si leggeva: ARMANI, al che io, stando al gioco, dissi: «Una garanzia!», e lui, in risposta: «Come me! Comme moi! ».
Per un’ora non accadde niente di diverso dal solito. Davanti o dietro il bancone guardavamo, come tutte le sere, quasi senza parlare, al massimo un paio di esclamazioni, la partita di calcio alla televisione del bar, per lo più il campionato inglese o spagnolo, a meno che non giocasse il Marsiglia, la squadra della città in cui l’oste, quando aveva quindici anni, orfano di padre, analfabeta e senza lavoro, mezzo secolo prima aveva raggiunto l’Europa dall’Atlante nordafricano, in nave, e subito, così diceva, anche grazie alle molte notti trascorse all’aperto nei primi tempi, vi aveva messo radici. (...)
Era già notte inoltrata, e io mi ritrovai nel Bar delle Tre stazioni che a poco a poco si andava svuotando, come non di rado capitava nei fine settimana, accanto a Emmanuel, il carrozziere, che di tanto in tanto, sul telefonino, mi mandava una poesia che aveva appena composto, di regola verso le prime ore dell’alba, prima di andare nella sua officina in una delle città nuove a una dozzina di fermate di distanza in treno.
Nel locale, nei momenti liberi, «Manu» era quello che, se non più di tutti gli altri, certo raccontava di sé con più serietà. Se lo facesse solo con me, a quattr’occhi come accadeva ora, richiesto o non richiesto, non saprei dire.
In ogni caso potevo raccontare di lui qualcosa che andava al di là del fatto che, se mai indossava una camicia, erano sempre camicie che non avevano bisogno di essere stirate. (...)
Infantile, anche mascalzone: ecco che tipo era. E al tempo stesso mi ero fatto l’idea, e non riguardava solo la notte in questione, un’idea che non mi aveva dato nessun altro nella nostra contrada: questo Emmanuel una volta o l’altra, presto addirittura, avrebbe ucciso qualcuno. (Ma non c’era anche un altro assassino, un terzo omicida? Di questo, forse, più tardi...). E per un «volto» del genere non avevo spiegazioni, di certo non quella secondo cui nei film polizieschi, almeno in quelli di una volta, spesso l’assassino, co