Corriere della Sera - La Lettura
Parlare tra vecchi amici è come giocare a tennis
Hanno iniziato al liceo. Prima ad Haifa, poi nel kibbutz, infine a Tel Aviv. Giocavano a tennis. Una volta vinceva uno, la volta dopo l’altro. E sempre, dopo la partita, si sedevano da qualche parte, a saziare la fame di conversazione fra amici. Lo fanno anche adesso: parlano come una volta giocavano. Uno ha più la tendenza a stare sotto rete, a osare. L’altro rimane sulla linea di fondo, in ascolto. Soprattutto, però, quando ci sono cose importanti da dirsi, il bello è che tra vecchi amici non sono necessarie tante parole
Giocavamo a tennis. Abbiamo cominciato al liceo ed è finita quando il suo ginocchio non ha più retto. Giocavamo una volta a settimana. All’inizio a Haifa. Dopo, nel kibbutz nel quale lui abitava durante l’università. Poi, per vent’anni, in un club a Tel Aviv. Una volta vinceva lui, la volta dopo io. E sempre dopo la partita ci sedevamo da qualche parte, a saziare la fame di conversazione fra amici.
Adesso sua figlia impara a giocare a tennis, nello stesso posto. Lui la porta a lezione alle 4 e deve tornare a prenderla alle 6. E fra una cosa e l’altra ha due ore libere, una rarità nella sua fittissima agenda.
Una volta ogni due settimane lo raggiungo. Ci sediamo per la nostra chiacchierata post-tennis, senza prima giocare a tennis.
Parliamo come una volta giocavamo. La palla passa da un campo all’altro rapidamente. Lui ha più la tendenza a stare sotto rete. A osare. Io tendo a rimanere nella linea di fondo. A stare in ascolto. Ma nella conversazione, come nel gioco, dipende tutto dal momento. Durante gli ultimi mesi di vita di Efrat, parlavo di più io. Quando lui si è innamorato disperatamente di una sua impiegata molto più giovane e non sapeva come uscirne, era lui a tormentarsi davanti a me e a cercare di trovare le parole, una volta ha persino mollato un pugno al tavolo disturbando la tranquillità di un posacenere.
Non ci diamo mai consigli. La scelta giusta emerge da sola. Naturalmente. Per il solo fatto di parlare con una persona che ti conosce da più di trent’anni, un discorso intimo, libero da distrazioni e intralci.
Quella volta non avevo alternative, ho dovuto portare con me Shai.
È rimasto un po’ sorpreso vedendola, ma non ha fatto storie. È questo il bello, tra vecchi amici. Non servono tante parole.
Ordiniamo il solito per entrambi. Anche se so che non toccherò il mio piatto. E in più un toast e un CocaCola per la bambina.
Domanda a Shai come va la scuola, e prima che lei riesca a rispondere «tutto bene», aggiunge: e per favore non rispondermi «tutto bene» come le mie figlie.
Lei scoppia a ridere. Racconta che è brava in letteratura e in storia, ma non in matematica. La foglia non è caduta lontano dall’albero, dice lui a entrambi. La mela, lo corregge lei.
Lui si ribella: hai mai pensato a quanto assurdo è questo proverbio, Shai? Come farebbe una mela a cadere lontano dall’albero?
Lei scoppia a ridere di nuovo.
Arriva la sua Coca-Cola.
Papà, mi dice, me l’hai promesso.
Fingo di sentirmi obbligato e le passo il mio telefono. E un paio di auricolari.
Solo dopo che è entrata in Spotify e ha scelto una canzone, solo una volta che sento la musica uscire alta dagli auricolari —
Comincio a parlare.
La faccia del mio amico con gli anni è cambiata. Ha delle rughe ai lati degli occhi. Macchie di sole sulle guance. E la mascella da duro si è un pochino ammorbidita.
Ma la sua espressione quando è sconvolto non è molto diversa.
Mi sta fissando come fissava lo schermo del televisore quando Andreas Herzog ha segnato il gol del pareggio contro Israele, azzerando le nostre possibilità di qualificarci per i Mondiali.
Efrat ci ha fotografati proprio in quel momento. Seduti in salotto. Io mi tiro i capelli che a quei tempi ancora avevo, e lui fissa lo schermo. Occhi infossati nelle orbite. Labbra socchiuse. Guance grigie.
Insomma, quanto tempo ti resta...?, chiede quando finisco. Sulla parola «tempo» gli si incrina la voce.
Non più di tre mesi.
E non c’è speranza che nel frattempo inventino qualche...?
Non c’è, amico mio. È lo stesso che ha avuto Efrat.
Una sola volta, in tutti gli anni della nostra amicizia, l’ho visto piangere. Avevamo poco più di vent’anni. Vivevo a Maoz Aviv con Efrat, e lui usciva con una ragazza che gli piaceva così tanto che aveva già annunciato che sarebbe diventata sua moglie. Ci saremmo dovuti incontrare in campo, invece è comparso a casa mia senza preavviso. Si è seduto sul divano. Giocherellava con le corde della racchetta senza aprire bocca. Poi si è nascosto la faccia fra le mani. Poi le spalle hanno cominciato a tremare. Ha emesso un verso. Da animale ferito.
Adesso si contiene. Vedo che si sta trattenendo perché si morde le labbra e capisco perché si trattiene dallo sguardo che lancia a Shai.
Mia figlia agita la testa a ritmo di musica e quando vede che lui la sta fissando gli rivolge il suo sorriso puro.
Il toast arriva in gran ritardo. Senza che lo chieda, lo taglio con due diagonali in quattro triangoli. Senza togliere gli auricolari dalle orecchie, prende un triangolo