Corriere della Sera - La Lettura
Apartheid, Cile Anche la politica gioca a tennis
Davis Per Covid (o debiti?) quest’anno salta la Coppa in passato coinvolta in casi diplomatici
Hanno detto la pandemia. Pensavano all’economia. Lo ha sostenuto l’«Équipe». Il quotidiano sportivo francese ha raccolto voci che già circolavano. La rivelazione: non sarebbe il coronavirus, intorno alla terra rossa della Caja Mágica di Madrid, ad aver fatto saltare le finali di Coppa Davis 2020. La vera (ma smentita) ragione: il previsto profondo rosso dell’organizzazione, che nel 2019 aveva già perso oltre 35 milioni per l’evento. Il mondo del tennis nella varietà di reazioni ha mormorato, malignato, compreso, assecondato. Alla fine, accettato senza troppo scandalo. Anche perché nel frattempo il tennis s’era rimesso a racchettare: Us Open giocati, Roland Garros in corso. Niente da fare: la coppa è slittata lo stesso, al 2021. Resterà un altro buco nell’albo d’oro. E con questo, fanno 13: gli anni in cui la
Davis non s’è giocata. Successe agli albori: 1901 e 1910. Poi, sospensioni solo per le guerre mondiali. E ultimo viene il Covid-19, a travagliare una storia già travagliata fin dall’intuizione del fondato re Dwight F i l l e y Davi s ( 1 8 7 9 - 1945), tennista e politico (fu segretario alla guerra statunitense negli anni Venti): sovrapporre l’idea di nazione al più individualista e autarchico degli sport. Ne sono scaturiti gloria e spettacolo, ma anche politica e storia.
Nel 1895 (prima che la Davis venisse immaginata da quattro ragazzi di Harvard) il giovane avvocato Mohandas Karamchand Gandhi si trasferisce nel Sudafrica britannico. Deve gestire una causa legale per la sua ditta indiana. Tempo dopo, in un tribunale, il giudice gli ordina di togliersi il turbante. Si rifiuta. In quel momento ha già conosciuto le condizioni di estrema discriminazione che pesano sui 150 mila in
diani che vivono in Sudafrica. Sono gli anni di formazione del Mahatma, nel Paese che sarà di Nelson Mandela. Nel 1906 Gandhi guida una protesta contro una legge razzista nel Transvaal. È la prima volta della satyagraha, disobbedienza civile e non violenza. È questa la storia che ancora pesa nel 1974.
Edizione 63 della Davis. In semifinale l ’ I t al i a s cende a « El l i s Park » , Johannesburg. Perde 4-1. L’India batte l’Urss (i due Paesi hanno da poco firmato un patto di amicizia e collaborazione). La finale dovrebbe disputarsi in Sudafrica. L’apartheid è legge dal 1948. Le proteste attraversano sport e politica internazionali. L’Argentina ha rifiutato di giocare sui campi whites
only. Premier indiano, Indira Gandhi. S’avanza l’ipotesi del campo neutro. Cade. L’India decide: boicottaggio.
E così la squadra sudafricana (Moore, Hewitt, Drysdale, McMillan) vince senza aver mai incontrato il team nazionale dei fratelli Amritraj, maghi dell’erba. «Come sportivo, rimasi deluso — avrebbe detto in seguito Vijay Amritraj — ma come individuo sono orgoglioso che il mio governo abbia fatto la scelta giusta». Quindici nazioni perderanno per non aver giocato contro il Paese dell’apartheid. Il Sudafrica è stato poi escluso dalla Davis dal 1978 al 1992.
Boicottaggio (che non fu ipotesi sul piatto due anni prima) è invece il principio/richiesta che dilaga in Italia nel ’76, quando Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli, col capitano pluridecorato in Davis, Nicola Pietrangeli, devono giocarsi la finale in trasferta nel Cile del dittatore Augusto Pinochet. Questione di Stato. Dibattiti e polemiche. Cortei e manifestazioni. Minacce a Pietrangeli. Fino a che i comunisti cileni spiegano a Enrico Berlinguer che non giocare significherebbe solo consegnare a Pinochet una sporca occasione di propaganda. Dunque, si parte. E si vince. Storia dello sport italiano immortalata nelle foto di Panatta/Bertolucci che per il doppio vestono in maglietta rossa.
Ci sono voluti invece decenni per battere l’arroccamento della refrattaria chiesa del tennis maschile. All’inizio del Novecento anche le tenniste iniziano a chiedere una propria Davis, promotrice Hazel Hotchkiss Wightman. Non ha successo.
La «concessione» si sblocca soltanto nel 1963, quando la federazione internazionale del tennis festeggia il proprio cinquantenario e dà all’evento un valore politico. Come era stato per gli uomini, l’inizio è un dominio Stati Uniti-Australia. Nel ’72 però l’albo d’oro si «spacca» con la vittoria del Sudafrica (ma in quell’anno nessuna nazionale si rifiuta di giocare a Johannesburg). Poi arriva lei, Martina Navratilova, e cambia la storia del tennis e della geopolitica sportiva. 1975, la Cecoslovacchia della giovanissima Martina (18 anni) batte l’Australia in finale ed è il primo Paese del blocco sovietico a vincere i «mondiali di tennis».
Quello stesso anno, in dicembre, Navratilova bussa all’Immigration and
Naturalization Service di New York. Il gi or no del l a defe z i one. Rest a per qualche anno apolide con green card.
Dopo qualche anno diventa cittadina statunitense. Il salto del muro della più grande tennista mai esistita. La regina sulla scacchiera cambia colore. E per rappresentare il suo nuovo reame torna anche indietro, a casa: nel 1986 la squadra Usa atterra per la finale proprio a Praga. Martina stavolta è americana. E le americane vincono.