Corriere della Sera - La Lettura
Candido allo Strega questo criminale
Uno scrittore che ha vinto il premio letterario più importante propone di fare gareggiare il romanzo di un altro scrittore: le competizioni «servono a valorizzare opere di assoluto pregio». Come quella, coraggiosa, di Aurelio Picca
Terre senza legge
In «Il più grande criminale di Roma è stato amico mio» la vita scorre tagliente e laida, bastarda e cattiva e insieme angelica
Un legame pericoloso
La storia passata riaffiora nell’intreccio febbricitante di una trama sospesa e interrotta, che fa avanti e indietro tra oggi e ieri
Durante questo luglio disperante d’Italia è sortito un romanzo formidabile. Si intitola Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, e l’ha scritto Aurelio Picca, un romanziere che non somiglia a nessun altro romanziere e oggi, dopo quella della critica che ha già ricevuto, merita l’acclamazione del grande pubblico per quest’opera, che è certamente la sua migliore.
Difficile trovare una storia più coraggiosa e lontana dalla piagaccia autoreferenziale e dall’autobiografia spicciola nella quale ogni tanto — spesso — finiamo per cadere tutti e tutte noi che scriviamo. Eppure di vita si parla nel Grande criminale. Di vita che scorre tagliente e laida nelle vene, bastarda e cattiva, eppure angelica. E del dolore, il dolore anch’esso angelico, e immenso, e mai sedato che continua a pugnalare Alfredo Braschi, il quasi sessantenne protagonista, luogotenente di un famoso, spietato, efferato criminale che negli anni Settanta terrorizzò Roma con i sequestri di persona — quell’antichissima, selvaggia coltellata al cuore della società che turbò me e la mia famiglia e la mia città per tutti gli anni in cui sono stato ragazzo, durante i quali si diceva fosse la Calvana, la brulla microcatena montuosa che sovrasta Prato, a ospitare i rapiti di tutta Italia, che, come gli stracci di Malaparte, finivano tutti qui.
Vive, il gran romanzo esistenziale di Aurelio Picca, in terre senza legge, buie, lovecraftiane, che da Roma non distano granché ma paiono lontanissime, e si stendono zitte tra laghi profondi e scuri, diamanti neri, o catrame fuso o pietre d’onice, in cui l’anima del protagonista affonda insieme alle speranze di salvezza. Per me il lago Albano è la morte, eppure ci vivo. E in una pensione, circondato da antichi sodali a lui rimasti fedeli, vive il Braschi, se può dirsi vita lo squallore dell’invecchiare tormentato dal dolore indicibile d’aver perso l’amore della figlioletta — A un anno e mezzo le facevo guidare, tenendola ficcata tra le cosce, la Bentley rossa. Urlava di gioia a vedere che a un piccolo movimento del volante la macchina sbandava. «Amore mio», le dicevo, «attenta che cadiamo su Roma» — per via d’un’orribile accadimento che — lui belva, lui leone — non era stato capace né di impedire né di punire, e porta sempre con sé una di quelle pistole per ammazzare i tori nel caso gli riuscisse di trovare chi fosse stato a compiere quello sfregio infame, e intanto perlustra senza fine le sue terre aspre, senza meta né ragione, e continua a passare davanti alla vecchia discoteca frequentata da ladroni, corridori di moto truccate e ragazze che sono state cancellate dal tempo o si sono sposate e ora sono nonne.
Intanto la sua storia passata riaffiora nell’intreccio febbricitante di una trama sospesa e interrotta, che fa l’andirivieni tra oggi e ieri, gli anni Settanta di Laudovino De Sanctis, il più grande criminale di Roma del titolo, che si presenta mirabilmente nel pezzo di bravura che sta all’inizio del romanzo, quando regala una Ferrari Daytona viola al Braschi ragazzino, solo perché lo vede a cena con la sua ragazza al tavolo accanto al suo e in qualche modo, per qualche ragione, lo sente vicino. Indossavo la camicia sbottonata sul petto, il giubbino di pelle e all’anulare portavo l’anello di zaffiro. Il Vecchio Fico ardeva. Io e Catherine avevamo fatto l’amore l’intero pomeriggio.
Nasce così la storia dell’amicizia tra Alfredo e Laudovino, che lo vuole e lo porta con sé nella banda ma cerca sempre di tenerlo lontano dai guai più grossi, e lo protegge come se gli fosse figlio mentre si srotola la sarabanda di delitti e rapimenti ed estorsioni che Picca racconta magistralmente, e fa impallidire tutti e ognuno dei libri e dei film sui criminali romani che ci vengono ammanniti da anni, ormai stancamente, dal cinema e dalla televisione.
Nulla m’importa che sia tutto vero, che De Sanctis sia esistito davvero, che i rapimenti narrati nel libro ci siano stati. Apprezzo ammirato — non posso non apprezzare — la scelta d’inserire nel romanzo le raggelanti deposizioni processuali e i verbali di interrogatorio che subito denunciano, con un’asprezza e un vocabolario impossibili da inventare anche per lo scrittore migliore, d’esser parole vere dette da criminali veri, e mi atterriscono e mi fanno rincuorare di non esserci mai finito io, nelle mani di Laudovino, ma nulla, davvero nulla di ciò che si legge in questo libro può far scordare d’essere di fronte a un romanzo, all’opera dell’invenzione d’un autore che padroneggia la sua arte fino a piegare il reale e costringerlo a prender parte al gran sabba che è Il più grande criminale, a diventare il portento del male raffigurato, della crudeltà vuota e necessaria, ferina e quasi involontaria di Laudovino che Picca non cerca mai di spiegare o scusare e invece sceglie di mostrarci nell’orrore noncurante che la riveste e la incarna, nella semplice, terribile pochezza del gesto che serve a togliere la vita al rapito — un colpo solo, come anche Robert De Niro nel Cacciatore.
Per quanto conservi l’incanto di sembrare scritto di getto, in un’unica dolorosa sessione di flusso di coscienza, questo è un romanzo che porta uno scheletro d’acciaio, lo stesso acciaio delle rivoltelle dei suoi eroi miseri e perduti, e d’acciaio sembra essere anche la fiducia di Picca nel credere sia ancora possibile raccontare un mondo slabbrato e vuoto, senza senso, dimentico persino dei demoni che lo governavano sino a pochi anni prima, e si debbono perdonare tutte quelle scorrettezze imperdonabili di cui il libro è costellato, come le si perdonano a Houellebecq e ai pochi altri che si sforzano di continuare a camminare su quel sentiero stretto e ripido e irto di rovi su cui ha sempre camminato Aurelio Picca.
Vorrei averne scritto io, di quel bosco coperto di foglie accartocciate che pareva un allevamento di rospi. Vorrei averla raccontata io, quella vita che sfugge via bruciante dalle mani del Braschi.
E poiché i premi letterari dovrebbero servire a premiare opere di assoluto valore come questa, chiedo all’amico Stefano Petrocchi di considerare questa mia recensione come la candidatura di Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, di Aurelio Picca, edito da Bompiani, al prossimo Premio Strega.