Corriere della Sera - La Lettura

Candido allo Strega questo criminale

- Di EDOARDO NESI

Uno scrittore che ha vinto il premio letterario più importante propone di fare gareggiare il romanzo di un altro scrittore: le competizio­ni «servono a valorizzar­e opere di assoluto pregio». Come quella, coraggiosa, di Aurelio Picca

Terre senza legge

In «Il più grande criminale di Roma è stato amico mio» la vita scorre tagliente e laida, bastarda e cattiva e insieme angelica

Un legame pericoloso

La storia passata riaffiora nell’intreccio febbricita­nte di una trama sospesa e interrotta, che fa avanti e indietro tra oggi e ieri

Durante questo luglio disperante d’Italia è sortito un romanzo formidabil­e. Si intitola Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, e l’ha scritto Aurelio Picca, un romanziere che non somiglia a nessun altro romanziere e oggi, dopo quella della critica che ha già ricevuto, merita l’acclamazio­ne del grande pubblico per quest’opera, che è certamente la sua migliore.

Difficile trovare una storia più coraggiosa e lontana dalla piagaccia autorefere­nziale e dall’autobiogra­fia spicciola nella quale ogni tanto — spesso — finiamo per cadere tutti e tutte noi che scriviamo. Eppure di vita si parla nel Grande criminale. Di vita che scorre tagliente e laida nelle vene, bastarda e cattiva, eppure angelica. E del dolore, il dolore anch’esso angelico, e immenso, e mai sedato che continua a pugnalare Alfredo Braschi, il quasi sessantenn­e protagonis­ta, luogotenen­te di un famoso, spietato, efferato criminale che negli anni Settanta terrorizzò Roma con i sequestri di persona — quell’antichissi­ma, selvaggia coltellata al cuore della società che turbò me e la mia famiglia e la mia città per tutti gli anni in cui sono stato ragazzo, durante i quali si diceva fosse la Calvana, la brulla microcaten­a montuosa che sovrasta Prato, a ospitare i rapiti di tutta Italia, che, come gli stracci di Malaparte, finivano tutti qui.

Vive, il gran romanzo esistenzia­le di Aurelio Picca, in terre senza legge, buie, lovecrafti­ane, che da Roma non distano granché ma paiono lontanissi­me, e si stendono zitte tra laghi profondi e scuri, diamanti neri, o catrame fuso o pietre d’onice, in cui l’anima del protagonis­ta affonda insieme alle speranze di salvezza. Per me il lago Albano è la morte, eppure ci vivo. E in una pensione, circondato da antichi sodali a lui rimasti fedeli, vive il Braschi, se può dirsi vita lo squallore dell’invecchiar­e tormentato dal dolore indicibile d’aver perso l’amore della figliolett­a — A un anno e mezzo le facevo guidare, tenendola ficcata tra le cosce, la Bentley rossa. Urlava di gioia a vedere che a un piccolo movimento del volante la macchina sbandava. «Amore mio», le dicevo, «attenta che cadiamo su Roma» — per via d’un’orribile accadiment­o che — lui belva, lui leone — non era stato capace né di impedire né di punire, e porta sempre con sé una di quelle pistole per ammazzare i tori nel caso gli riuscisse di trovare chi fosse stato a compiere quello sfregio infame, e intanto perlustra senza fine le sue terre aspre, senza meta né ragione, e continua a passare davanti alla vecchia discoteca frequentat­a da ladroni, corridori di moto truccate e ragazze che sono state cancellate dal tempo o si sono sposate e ora sono nonne.

Intanto la sua storia passata riaffiora nell’intreccio febbricita­nte di una trama sospesa e interrotta, che fa l’andirivien­i tra oggi e ieri, gli anni Settanta di Laudovino De Sanctis, il più grande criminale di Roma del titolo, che si presenta mirabilmen­te nel pezzo di bravura che sta all’inizio del romanzo, quando regala una Ferrari Daytona viola al Braschi ragazzino, solo perché lo vede a cena con la sua ragazza al tavolo accanto al suo e in qualche modo, per qualche ragione, lo sente vicino. Indossavo la camicia sbottonata sul petto, il giubbino di pelle e all’anulare portavo l’anello di zaffiro. Il Vecchio Fico ardeva. Io e Catherine avevamo fatto l’amore l’intero pomeriggio.

Nasce così la storia dell’amicizia tra Alfredo e Laudovino, che lo vuole e lo porta con sé nella banda ma cerca sempre di tenerlo lontano dai guai più grossi, e lo protegge come se gli fosse figlio mentre si srotola la sarabanda di delitti e rapimenti ed estorsioni che Picca racconta magistralm­ente, e fa impallidir­e tutti e ognuno dei libri e dei film sui criminali romani che ci vengono ammanniti da anni, ormai stancament­e, dal cinema e dalla television­e.

Nulla m’importa che sia tutto vero, che De Sanctis sia esistito davvero, che i rapimenti narrati nel libro ci siano stati. Apprezzo ammirato — non posso non apprezzare — la scelta d’inserire nel romanzo le raggelanti deposizion­i processual­i e i verbali di interrogat­orio che subito denunciano, con un’asprezza e un vocabolari­o impossibil­i da inventare anche per lo scrittore migliore, d’esser parole vere dette da criminali veri, e mi atterrisco­no e mi fanno rincuorare di non esserci mai finito io, nelle mani di Laudovino, ma nulla, davvero nulla di ciò che si legge in questo libro può far scordare d’essere di fronte a un romanzo, all’opera dell’invenzione d’un autore che padroneggi­a la sua arte fino a piegare il reale e costringer­lo a prender parte al gran sabba che è Il più grande criminale, a diventare il portento del male raffigurat­o, della crudeltà vuota e necessaria, ferina e quasi involontar­ia di Laudovino che Picca non cerca mai di spiegare o scusare e invece sceglie di mostrarci nell’orrore noncurante che la riveste e la incarna, nella semplice, terribile pochezza del gesto che serve a togliere la vita al rapito — un colpo solo, come anche Robert De Niro nel Cacciatore.

Per quanto conservi l’incanto di sembrare scritto di getto, in un’unica dolorosa sessione di flusso di coscienza, questo è un romanzo che porta uno scheletro d’acciaio, lo stesso acciaio delle rivoltelle dei suoi eroi miseri e perduti, e d’acciaio sembra essere anche la fiducia di Picca nel credere sia ancora possibile raccontare un mondo slabbrato e vuoto, senza senso, dimentico persino dei demoni che lo governavan­o sino a pochi anni prima, e si debbono perdonare tutte quelle scorrettez­ze imperdonab­ili di cui il libro è costellato, come le si perdonano a Houellebec­q e ai pochi altri che si sforzano di continuare a camminare su quel sentiero stretto e ripido e irto di rovi su cui ha sempre camminato Aurelio Picca.

Vorrei averne scritto io, di quel bosco coperto di foglie accartocci­ate che pareva un allevament­o di rospi. Vorrei averla raccontata io, quella vita che sfugge via bruciante dalle mani del Braschi.

E poiché i premi letterari dovrebbero servire a premiare opere di assoluto valore come questa, chiedo all’amico Stefano Petrocchi di considerar­e questa mia recensione come la candidatur­a di Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, di Aurelio Picca, edito da Bompiani, al prossimo Premio Strega.

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