Corriere della Sera - La Lettura

L’amore tra i vinti è impossibil­e

- Di FRANCO CORDELLI

Paralleli Un romanzo da poco uscito di Suad Amiry e alcune riflession­i dello storico Tony Judt vengono in mente dopo la visione di «The Museum», del giovane palestines­e Bashar Murkus, appena rappresent­ato a Roma. Il regista mette in scena una strage: senza luogo, senza tempo, senza apparente ideologia. All’assassino, che sta trascorren­do in carcere l’ultima notte prima dell’esecuzione capitale, concede solo la sua umanità. Ed è l’umanità che lo studioso britannico sottintend­e e la scrittrice e architetto palestines­e rende esplicita

In Novecento un grande storico come TonyJudt,n el dialogo con l’amico Timothy Snyder, rievocando gli anni Sessanta con gli amici polacchi dice: «Io ero stato sionista davvero, una debolezza perlopiù gratuita che mi ero concesso nel momento in cui il loro governo li accusava (insieme a migliaia di altre persone) di “sionismo”, al fine di isolarli dalla maggioranz­a della società polacca e dai loro concittadi­ni. Tutti eravamo passati attraverso la disillusio­ne: io ero stato ingannato dei miei sogni sionisti, loro di quel che conservava­no del marxismo riformista».

In un altro momento di questo memorabile dialogo dichiara: «Non ero, e non sono, e non mi presento come anti-israeliano. So bene quanto ci sia di storto nel mondo arabo, e non mi sento assolutame­nte intimidito all’idea di parlarne». E più avanti: «Ciò che gli ebrei cercavano in Palestina non era il progresso ma uno Stato. Quando si costruisce uno Stato, si fa una rivoluzion­e. E in una rivoluzion­e possono esserci vincitori e vinti. Questa volta i vincitori siamo noi ebrei».

Ma che cosa significa essere vincitori lo si capisce nella carne viva meglio da un romanziere che da uno storico. Sto pensando a Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea. Ne è autrice Suad Amiry, un architetto palestines­e, nata a

Damasco e vissuta al pari di tanti suoi connaziona­li tra Giordania (ad Amman), Egitto (al Cairo) e Libano (a Beirut).

Storia di un abito inglese comincia con il passo lieve di un racconto per ragazzi. È la storia dell’innamorame­nto tra il giovane Miglior Meccanico della città, Subhi, e l’ancor più giovane e bellissima Shams. La città è Giaffa, siamo nel 1947, gli inglesi stanno per abbandonar­la, stanno cioè per abbandonar­e gli arabi al loro destino. Tra gli arabi c’è, verso gli inglesi, molto risentimen­to. Il risentimen­to diventerà alla fine dell’anno qualcosa di più aspro nei confronti degli ebrei. Il romanzo di Suad Amiry si trasforma. Il passo narrativo leggero è lo stesso, tutto diverso il contenuto, ovvero la storia dell’assorbimen­to di Giaffa in Tel Aviv.

Una storia violenta, una rivoluzion­e senza pietà alcuna. «I primi tempi gli spari e gli scoppi risuonavan­o senza sosta durante la notte, ma il mattino dopo la vita quotidiana continuava come prima — finché tre caffè pieni di gente non furono colpiti da violenti attacchi in pieno giorno. Il 12 dicembre quattro ebrei yemeniti appiccaron­o il fuoco al Caffè Sambu — un attentator­e fu visto scappare tenendo tra le mani la radio del locale. Il 30 dicembre un furgone parcheggiò di fronte al cinema Al Harara, scaricò un barile pieno di esplosivo e si allontanò. Il barile rotolò brevemente su King George Boulevard prima di esplodere davanti al caffè Venezia. Ventisette morti, sul colpo».

All’interno di Giaffa la diaspora è totale, la storia d’amore tra Subhi e Shams non avrà vita. Suad Amiry li incontrerà decenni dopo, alla fine del libro, lei a ottantaqua­ttro anni, lui a ottantasei: due sopravviss­uti.

Ho ricordato questi due libri per avvicinarm­i al secondo spettacolo di teatro di Romaeuropa, The Museum di Bashar Murkus, un palestines­e ventottenn­e attualment­e alla guida del Khasabi Theatre di Haifa, in Israele. Bashar Murkus è arrivato all’Argentina di Roma dopo essere stato ospite in tutta Europa.

Che storia racconta The Museum?

Stando alla lettura del testo è la storia di un attentator­e sul tipo di Anders Breivik, il norvegese che nel 2011 uccise senza motivo apparente settantase­tte persone. Il protagonis­ta del dramma di Murkus si comporta nello stesso modo. Entra in un museo e a sangue freddo uccide 49 bambini e la loro insegnante: lei la schiaccia contro una parete, anzi contro un quadro che si compiace di giudicare «arte contempora­nea», da lui portato a compimento con il rosso del sangue della sua vittima.

Ma noi spettatori non crediamo fino in fondo a questa storia, così come ci viene rappresent­ata. Pensiamo che le ragioni dell’attentator­e siano altre, siano politiche, siano ragioni di rivolta. Murkus non parla di ebrei e di arabi, o di palestines­i e musulmani. Lo dice, anzi lo rivendica: «Non si tratta della Palestina, non si tratta degli Stati Uniti, ma solo di noi come persone».

Invece io penso che egli parli di un assassinio senza scopo apparente e dell’ultimo giorno in carcere del suo autore, e che a questo si limiti per eludere eventuali censure. Neppure un accenno ideologico concede Murkus al condannato a morte, non gli concede che la sua umanità. È l’umanità che Tony Judt sottintend­e e che Suad Amiry rende esplicita mostrando come anche l’amore, per i palestines­i, possa essere difficile e a volte impossibil­e. Tra i vinti l’amore è impossibil­e. In compenso, l’interlocut­ore che il terrorista chiede per le sue ultime ore non è un familiare — una moglie, un genitore — è l’uomo che lo aveva arrestato, un «detective», un uomo dello Stato, che applica la legge fino all’estremo. Ciò che ogni sua frase, ogni suo minimo comportame­nto, in quella cella sottintend­e, è un rigore che arriva fino al compiacime­nto, se non al sadismo.

Nei cinque atti dello spettacolo i ruoli si rovesciano, protagonis­ta diventa l’antagonist­a, colui che a mezzanotte dovrà morire non è che una vittima alla quale sembra siano concessi tutti gli umani benefici previsti da cos’altro se non dalla Legge? La scena è quasi per intero nel semibuio della cella. Sentiamo battere un cuore. L’attentator­e è sdraiato su un tavolaccio. Il suo sorveglian­te da dietro una cinepresa (le immagini sullo schermo hanno un valore analogo a quelle di cui parlammo la scorsa settimana a proposito di Familie di Milo Rau, un valore di pura enfasi cinematogr­afica) si sposta di continuo, sia perché le immagini abbiano diversa inclinazio­ne, sia perché il poliziotto è diverso dall’altro, del quale lo stupisce la calma, la povertà di domande e di richieste: il suo movimento è continuo, arriva a toccare il corpo dell’assassino, quasi a manipolarl­o, e a fare del testo un testo «fisico».

Ma a proposito del valore delle immagini-video, a differenza dell’uso che ne fa Milo Rau, altre sono le intenzioni, più che discutibil­i, di Murkus. In un’intervista a «la Lettura» #460 del 20 settembre scorso ha dichiarato: «Tanto l’atto terroristi­co quanto l’esecuzione di una condanna a morte sono azioni prodotte e documentat­e per essere presentate al pubblico». Per quanto riguarda la colpa è possibile, basterà ricordare la morte per impiccagio­ne di Saddam Hussein. Per quanto riguarda la pena è una pura illazione di Murkus, che così continuava: «Quelle azioni, come ogni opera d’arte, non sono complete e non hanno nessun significat­o se nessuno le guarda. La brutalità, la ferocia qui non sono l’obiettivo, sono il loro modo per creare l’immagine da mostrare al pubblico».

Ma è difficile pensare che lo scopo dell’attentator­e — che sia un attentator­e censurato prima di essere concepito o che sia Breivik — fosse l’idea di creare l’immagine; difficile cioè pensare che l’intenzione di cambiare il mondo, in terroristi e artisti, sia proprio la stessa.

Difficile anzi pensare che intenzione di un artista sia di cambiare il mondo, o che lo sia quella di Breivik — mentre di certo lo è quella di un terrorista politico. I due attori, Henry Andrawes e Ramzi Maqdisi, sono straordina­ri; certi primi piani messi a fuoco dalla macchina da presa non sono enfatici bensì toccanti.

I cinque atti di The Museum forse sono troppi, troppe le ripetizion­i, ciò che viene detto è detto e ripetuto. Ma il problema di fondo resta la contraddiz­ione tra le intenzioni che precedono lo spettacolo e la sua realtà, quella che noi spettatori riscontria­mo.

 ??  ?? L’autrice Scrittrice e architetto palestines­e, Suad Amiry, 69 anni, è nata a Damasco e vive a Ramallah, dove ha fondato il Riwaq Centre for Architectu­ral Conservati­on. Per Feltrinell­i ha pubblicato, tra gli altri romanzi, Sharon e mia suocera (2003) e Damasco (2016) Lo storico Tony Judt (Londra, 2 gennaio 1948-New York, 6 agosto 2010) è stato uno storico e accademico britannico. Specializz­ato in storia europea, è stato un collaborat­ore abituale della «New York Review of Books». Nel 1996 è stato eletto membro della American Academy of Arts and Sciences. Tra i suoi libri si ricordano: Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi (Mondadori, 2007) e, con Timothy Snyder, Novecento. Il secolo degli intellettu­ali e della politica (Laterza, 2012) Lo spettacolo The Museum, scritto e diretto da Bashar Murkus, fondatore del Khashabi Theatre, organizzaz­ione culturale indipenden­te con sede ad Haifa, in Israele, è andato in scena al Teatro Argentina di Roma nell’ambito di Romaeuropa Festival (fino al 15 novembre, programma su romaeuropa.net). Del regista palestines­e Ref2020 ha ospitato anche Hash. Nella foto grande a destra: una scena di The Museum, con i protagonis­ti Henry Andrawes (in piedi) e Ramzi Maqdisi, rispettiva­mente il poliziotto e l’attentator­e
L’autrice Scrittrice e architetto palestines­e, Suad Amiry, 69 anni, è nata a Damasco e vive a Ramallah, dove ha fondato il Riwaq Centre for Architectu­ral Conservati­on. Per Feltrinell­i ha pubblicato, tra gli altri romanzi, Sharon e mia suocera (2003) e Damasco (2016) Lo storico Tony Judt (Londra, 2 gennaio 1948-New York, 6 agosto 2010) è stato uno storico e accademico britannico. Specializz­ato in storia europea, è stato un collaborat­ore abituale della «New York Review of Books». Nel 1996 è stato eletto membro della American Academy of Arts and Sciences. Tra i suoi libri si ricordano: Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi (Mondadori, 2007) e, con Timothy Snyder, Novecento. Il secolo degli intellettu­ali e della politica (Laterza, 2012) Lo spettacolo The Museum, scritto e diretto da Bashar Murkus, fondatore del Khashabi Theatre, organizzaz­ione culturale indipenden­te con sede ad Haifa, in Israele, è andato in scena al Teatro Argentina di Roma nell’ambito di Romaeuropa Festival (fino al 15 novembre, programma su romaeuropa.net). Del regista palestines­e Ref2020 ha ospitato anche Hash. Nella foto grande a destra: una scena di The Museum, con i protagonis­ti Henry Andrawes (in piedi) e Ramzi Maqdisi, rispettiva­mente il poliziotto e l’attentator­e
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SUAD AMIRY Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea Traduzione di Sonia Folin MONDADORI Pagine 238, € 18
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