Corriere della Sera - La Lettura
L’amore tra i vinti è impossibile
Paralleli Un romanzo da poco uscito di Suad Amiry e alcune riflessioni dello storico Tony Judt vengono in mente dopo la visione di «The Museum», del giovane palestinese Bashar Murkus, appena rappresentato a Roma. Il regista mette in scena una strage: senza luogo, senza tempo, senza apparente ideologia. All’assassino, che sta trascorrendo in carcere l’ultima notte prima dell’esecuzione capitale, concede solo la sua umanità. Ed è l’umanità che lo studioso britannico sottintende e la scrittrice e architetto palestinese rende esplicita
In Novecento un grande storico come TonyJudt,n el dialogo con l’amico Timothy Snyder, rievocando gli anni Sessanta con gli amici polacchi dice: «Io ero stato sionista davvero, una debolezza perlopiù gratuita che mi ero concesso nel momento in cui il loro governo li accusava (insieme a migliaia di altre persone) di “sionismo”, al fine di isolarli dalla maggioranza della società polacca e dai loro concittadini. Tutti eravamo passati attraverso la disillusione: io ero stato ingannato dei miei sogni sionisti, loro di quel che conservavano del marxismo riformista».
In un altro momento di questo memorabile dialogo dichiara: «Non ero, e non sono, e non mi presento come anti-israeliano. So bene quanto ci sia di storto nel mondo arabo, e non mi sento assolutamente intimidito all’idea di parlarne». E più avanti: «Ciò che gli ebrei cercavano in Palestina non era il progresso ma uno Stato. Quando si costruisce uno Stato, si fa una rivoluzione. E in una rivoluzione possono esserci vincitori e vinti. Questa volta i vincitori siamo noi ebrei».
Ma che cosa significa essere vincitori lo si capisce nella carne viva meglio da un romanziere che da uno storico. Sto pensando a Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea. Ne è autrice Suad Amiry, un architetto palestinese, nata a
Damasco e vissuta al pari di tanti suoi connazionali tra Giordania (ad Amman), Egitto (al Cairo) e Libano (a Beirut).
Storia di un abito inglese comincia con il passo lieve di un racconto per ragazzi. È la storia dell’innamoramento tra il giovane Miglior Meccanico della città, Subhi, e l’ancor più giovane e bellissima Shams. La città è Giaffa, siamo nel 1947, gli inglesi stanno per abbandonarla, stanno cioè per abbandonare gli arabi al loro destino. Tra gli arabi c’è, verso gli inglesi, molto risentimento. Il risentimento diventerà alla fine dell’anno qualcosa di più aspro nei confronti degli ebrei. Il romanzo di Suad Amiry si trasforma. Il passo narrativo leggero è lo stesso, tutto diverso il contenuto, ovvero la storia dell’assorbimento di Giaffa in Tel Aviv.
Una storia violenta, una rivoluzione senza pietà alcuna. «I primi tempi gli spari e gli scoppi risuonavano senza sosta durante la notte, ma il mattino dopo la vita quotidiana continuava come prima — finché tre caffè pieni di gente non furono colpiti da violenti attacchi in pieno giorno. Il 12 dicembre quattro ebrei yemeniti appiccarono il fuoco al Caffè Sambu — un attentatore fu visto scappare tenendo tra le mani la radio del locale. Il 30 dicembre un furgone parcheggiò di fronte al cinema Al Harara, scaricò un barile pieno di esplosivo e si allontanò. Il barile rotolò brevemente su King George Boulevard prima di esplodere davanti al caffè Venezia. Ventisette morti, sul colpo».
All’interno di Giaffa la diaspora è totale, la storia d’amore tra Subhi e Shams non avrà vita. Suad Amiry li incontrerà decenni dopo, alla fine del libro, lei a ottantaquattro anni, lui a ottantasei: due sopravvissuti.
Ho ricordato questi due libri per avvicinarmi al secondo spettacolo di teatro di Romaeuropa, The Museum di Bashar Murkus, un palestinese ventottenne attualmente alla guida del Khasabi Theatre di Haifa, in Israele. Bashar Murkus è arrivato all’Argentina di Roma dopo essere stato ospite in tutta Europa.
Che storia racconta The Museum?
Stando alla lettura del testo è la storia di un attentatore sul tipo di Anders Breivik, il norvegese che nel 2011 uccise senza motivo apparente settantasette persone. Il protagonista del dramma di Murkus si comporta nello stesso modo. Entra in un museo e a sangue freddo uccide 49 bambini e la loro insegnante: lei la schiaccia contro una parete, anzi contro un quadro che si compiace di giudicare «arte contemporanea», da lui portato a compimento con il rosso del sangue della sua vittima.
Ma noi spettatori non crediamo fino in fondo a questa storia, così come ci viene rappresentata. Pensiamo che le ragioni dell’attentatore siano altre, siano politiche, siano ragioni di rivolta. Murkus non parla di ebrei e di arabi, o di palestinesi e musulmani. Lo dice, anzi lo rivendica: «Non si tratta della Palestina, non si tratta degli Stati Uniti, ma solo di noi come persone».
Invece io penso che egli parli di un assassinio senza scopo apparente e dell’ultimo giorno in carcere del suo autore, e che a questo si limiti per eludere eventuali censure. Neppure un accenno ideologico concede Murkus al condannato a morte, non gli concede che la sua umanità. È l’umanità che Tony Judt sottintende e che Suad Amiry rende esplicita mostrando come anche l’amore, per i palestinesi, possa essere difficile e a volte impossibile. Tra i vinti l’amore è impossibile. In compenso, l’interlocutore che il terrorista chiede per le sue ultime ore non è un familiare — una moglie, un genitore — è l’uomo che lo aveva arrestato, un «detective», un uomo dello Stato, che applica la legge fino all’estremo. Ciò che ogni sua frase, ogni suo minimo comportamento, in quella cella sottintende, è un rigore che arriva fino al compiacimento, se non al sadismo.
Nei cinque atti dello spettacolo i ruoli si rovesciano, protagonista diventa l’antagonista, colui che a mezzanotte dovrà morire non è che una vittima alla quale sembra siano concessi tutti gli umani benefici previsti da cos’altro se non dalla Legge? La scena è quasi per intero nel semibuio della cella. Sentiamo battere un cuore. L’attentatore è sdraiato su un tavolaccio. Il suo sorvegliante da dietro una cinepresa (le immagini sullo schermo hanno un valore analogo a quelle di cui parlammo la scorsa settimana a proposito di Familie di Milo Rau, un valore di pura enfasi cinematografica) si sposta di continuo, sia perché le immagini abbiano diversa inclinazione, sia perché il poliziotto è diverso dall’altro, del quale lo stupisce la calma, la povertà di domande e di richieste: il suo movimento è continuo, arriva a toccare il corpo dell’assassino, quasi a manipolarlo, e a fare del testo un testo «fisico».
Ma a proposito del valore delle immagini-video, a differenza dell’uso che ne fa Milo Rau, altre sono le intenzioni, più che discutibili, di Murkus. In un’intervista a «la Lettura» #460 del 20 settembre scorso ha dichiarato: «Tanto l’atto terroristico quanto l’esecuzione di una condanna a morte sono azioni prodotte e documentate per essere presentate al pubblico». Per quanto riguarda la colpa è possibile, basterà ricordare la morte per impiccagione di Saddam Hussein. Per quanto riguarda la pena è una pura illazione di Murkus, che così continuava: «Quelle azioni, come ogni opera d’arte, non sono complete e non hanno nessun significato se nessuno le guarda. La brutalità, la ferocia qui non sono l’obiettivo, sono il loro modo per creare l’immagine da mostrare al pubblico».
Ma è difficile pensare che lo scopo dell’attentatore — che sia un attentatore censurato prima di essere concepito o che sia Breivik — fosse l’idea di creare l’immagine; difficile cioè pensare che l’intenzione di cambiare il mondo, in terroristi e artisti, sia proprio la stessa.
Difficile anzi pensare che intenzione di un artista sia di cambiare il mondo, o che lo sia quella di Breivik — mentre di certo lo è quella di un terrorista politico. I due attori, Henry Andrawes e Ramzi Maqdisi, sono straordinari; certi primi piani messi a fuoco dalla macchina da presa non sono enfatici bensì toccanti.
I cinque atti di The Museum forse sono troppi, troppe le ripetizioni, ciò che viene detto è detto e ripetuto. Ma il problema di fondo resta la contraddizione tra le intenzioni che precedono lo spettacolo e la sua realtà, quella che noi spettatori riscontriamo.