Corriere della Sera - La Lettura
Amici e fienili La rete segreta delle dediche
«La seconda spada» è stato scritto «per Raimund Fellinger», editor di tante opere. Una storia nella storia, e non è la sola (svela la sua traduttrice)
L’assaggio del nuovo scritto di Peter Handke, La seconda spada, lascia presentire il sapore del testo, senza permettere di addentarlo fino all’osso. Chi c’è nel mirino del vendicatore? Come si consumerà il delitto? Perché la vendicata, la «beata e santa» madre dell’autore fa tanta paura? Lasciamo fare a lui, ad Handke, che provoca l’immaginazione, tentando il lettore in un gioco di sfida e seduzione. Nel finale che non è un finale — questo sì possiamo anticiparlo — mostrerà sé stesso di ritorno dalla sua spedizione vendicativa: è ginocchioni, al buio, davanti al cancello chiuso di casa sua, senza le chiavi. «Ma questa storia dovrà raccontarla qualcun altro», conclude.
Anche la dedica del libro contiene il nucleo di una storia della quale neanche l’autore poteva prevedere il finale. Chi è Raimund Fellinger, al quale il libro del Nobel è dedicata?
Non è un enigma. Fellinger è un personaggio pubblico, figura stimata nell’ambito della cultura tedesca. Colonna portante della casa editrice Suhrkamp, caporedattore dai primi anni Ottanta, curatore e studioso dell’opera di Handke, oltre che di quella di altri due giganti letterari, Uwe Johnson e Thomas Bernhard, credette fin dal principio nella grandezza dello scrittore austriaco e vide riconosciuta la propria certezza con l’incoronazione di Handke a Stoccolma lo scorso dicembre.
Era leggenda che, quale suo editor, fosse l’unico a decifrare la sua scrittura, perciò aveva l’onere e l’onore di trascrivere i suoi manoscritti. Che da Handke fosse ricambiato con pari fiducia lo intuimmo a Bologna 5 anni fa. Fu lui ad accompagnarlo in Italia a ricevere, nel giugno 2015, il premio Elena Violani Landi per la poesia, e fu lui a salire sul palco della Cineteca per leggere al posto dello scrittore — notoriamente schivo e refrattario ai riflettori — passi del Canto alla durata. Lo fece con l’emozionata goffaggine delle persone timide, mentre Handke in platea lo ascoltava compiaciuto. Poco più di due anni dopo, nell’inverno del 2017 fu lo stesso Handke a dirci che non c’era più Fellinger in redazione. Colpito da un ictus era stato costretto ad abbandonare il suo ruolo anzitempo. Era a Stoccolma l’anno scorso ad applaudire il Nobel al suo discorso ufficiale: sensibilmente offeso nel volto e nella parola da un’emiparesi, era tra i pochissimi invitati personali del premiato. E lo scorso febbraio già sulla prima bozza ancora non definitiva di La seconda spada si notava la dedica.
Il destino, misteriosamente preciso nel calcolare le sue trame, ha voluto che Raimund Fellinger facesse appena in tempo a vedersi dedicato l’ultimo titolo del «suo» autore: è morto infatti il 25 aprile scorso pochi giorni dopo la pubblicazione in Germania del libro.
Già, il destino… Habent sua fata libelli, dice Handke, con una citazione classica. Una volta creati i libri camminano per la loro strada con le proprie gambe e vanno incontro a un destino che sfugge al loro autore. Handke lo sa e talvolta, non sempre, li affida al loro percorso accompagnati da un’enunciazione — una dedica, un’epigrafe, una citazione in esergo — che vale come misterioso viatico.
«Per S.» era scritto ne I bei giorni di Aranjuez, come annunciato sulla soglia del testo, in quello spazio privato, riservato, quasi segreto che è la dedica. E io, da traduttrice, avevo spiegato sul «Corriere» che la dedicataria del dramma fosse Sophie, Sophie Semin Handke, la moglie dell’autore, con grande disappunto dell’interessata la quale a Venezia, dove apparve come protagonista assoluta di quel dialogo teatrale sull’amore anche nella sua versione filmica, fece notare, a difesa del privato e del segreto, che S. era solo S., enigmaticamente S..
«Al timpano del fienile dei Koppenfels» è dedicato il lungo diario Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi che raccoglie le notazioni di Handke appuntate fra il 2007 e il 2015. Non è obbligatorio che il lettore colga il riferimento al frontone del fienile del vicino di Weimar che Goethe scorgeva dalla finestra del suo studio. Né che riconosca, dottissima citazione nascosta, l’espressione familiarmente ricorrente negli epistolari goethiani. L’evocazione — o invocazione — vale più per Handke stesso che, chino con solennità sul proprio lavoro, chiama a sé la presenza del venerato poeta, complice e amico, compagno di viaggio e nume tutelare.
Della compagnia degli spiriti scelti per affinità elettive fa parte il poeta belga di origini ebree polacche René Kalinsky, ricordato, chissà perché e letteralmente en passant, nella dedica del Canto alla durata: «Poco dopo essere passato davanti alla sua abitazione abbandonata». Messe fuori dal testo all’ingresso del testo, quelle poche righe che spesso il lettore nota solo dopo aver letto l’ultima pagina, non vogliono mai rivelare alcunché. Spesso anzi valgono a pungolare il dubbio o a moltiplicare le domande. Come la frase di Raymond Chandler all’inizio di L’ambulante — «Nulla sembra più vuoto di una piscina vuota» — la domanda di Horkheimer in testa a L’ora del vero sentire — «Violenza e assurdità non sono in fondo la stessa cosa?» — o la citazione sibillina che introduce I calabroni, « ibis redibis non morieris in bello »: è davvero la risposta che dà la Sibilla al soldato in partenza, e a seconda di dove si mette la virgola il responso è «tornerai» ( redibis, non morieris) o
«non tornerai» ( redibis non, morieris). Ai posteri l’ardua sentenza. O, meglio, ai lettori. Destinatari, se non dedicatari, di ciò che è scritto, entreranno comunque per vie recondite a far parte del destino del testo. A loro indirizza il suo cenno l’autore all’inizio del libro più rappresentativo della sua poetica, I giorni e le opere: «Rivolgo il mio saluto a tutti voi, lettori seri».