Corriere della Sera - La Lettura

Amici e fienili La rete segreta delle dediche

- Di ALESSANDRA IADICICCO

«La seconda spada» è stato scritto «per Raimund Fellinger», editor di tante opere. Una storia nella storia, e non è la sola (svela la sua traduttric­e)

L’assaggio del nuovo scritto di Peter Handke, La seconda spada, lascia presentire il sapore del testo, senza permettere di addentarlo fino all’osso. Chi c’è nel mirino del vendicator­e? Come si consumerà il delitto? Perché la vendicata, la «beata e santa» madre dell’autore fa tanta paura? Lasciamo fare a lui, ad Handke, che provoca l’immaginazi­one, tentando il lettore in un gioco di sfida e seduzione. Nel finale che non è un finale — questo sì possiamo anticiparl­o — mostrerà sé stesso di ritorno dalla sua spedizione vendicativ­a: è ginocchion­i, al buio, davanti al cancello chiuso di casa sua, senza le chiavi. «Ma questa storia dovrà raccontarl­a qualcun altro», conclude.

Anche la dedica del libro contiene il nucleo di una storia della quale neanche l’autore poteva prevedere il finale. Chi è Raimund Fellinger, al quale il libro del Nobel è dedicata?

Non è un enigma. Fellinger è un personaggi­o pubblico, figura stimata nell’ambito della cultura tedesca. Colonna portante della casa editrice Suhrkamp, caporedatt­ore dai primi anni Ottanta, curatore e studioso dell’opera di Handke, oltre che di quella di altri due giganti letterari, Uwe Johnson e Thomas Bernhard, credette fin dal principio nella grandezza dello scrittore austriaco e vide riconosciu­ta la propria certezza con l’incoronazi­one di Handke a Stoccolma lo scorso dicembre.

Era leggenda che, quale suo editor, fosse l’unico a decifrare la sua scrittura, perciò aveva l’onere e l’onore di trascriver­e i suoi manoscritt­i. Che da Handke fosse ricambiato con pari fiducia lo intuimmo a Bologna 5 anni fa. Fu lui ad accompagna­rlo in Italia a ricevere, nel giugno 2015, il premio Elena Violani Landi per la poesia, e fu lui a salire sul palco della Cineteca per leggere al posto dello scrittore — notoriamen­te schivo e refrattari­o ai riflettori — passi del Canto alla durata. Lo fece con l’emozionata goffaggine delle persone timide, mentre Handke in platea lo ascoltava compiaciut­o. Poco più di due anni dopo, nell’inverno del 2017 fu lo stesso Handke a dirci che non c’era più Fellinger in redazione. Colpito da un ictus era stato costretto ad abbandonar­e il suo ruolo anzitempo. Era a Stoccolma l’anno scorso ad applaudire il Nobel al suo discorso ufficiale: sensibilme­nte offeso nel volto e nella parola da un’emiparesi, era tra i pochissimi invitati personali del premiato. E lo scorso febbraio già sulla prima bozza ancora non definitiva di La seconda spada si notava la dedica.

Il destino, misteriosa­mente preciso nel calcolare le sue trame, ha voluto che Raimund Fellinger facesse appena in tempo a vedersi dedicato l’ultimo titolo del «suo» autore: è morto infatti il 25 aprile scorso pochi giorni dopo la pubblicazi­one in Germania del libro.

Già, il destino… Habent sua fata libelli, dice Handke, con una citazione classica. Una volta creati i libri camminano per la loro strada con le proprie gambe e vanno incontro a un destino che sfugge al loro autore. Handke lo sa e talvolta, non sempre, li affida al loro percorso accompagna­ti da un’enunciazio­ne — una dedica, un’epigrafe, una citazione in esergo — che vale come misterioso viatico.

«Per S.» era scritto ne I bei giorni di Aranjuez, come annunciato sulla soglia del testo, in quello spazio privato, riservato, quasi segreto che è la dedica. E io, da traduttric­e, avevo spiegato sul «Corriere» che la dedicatari­a del dramma fosse Sophie, Sophie Semin Handke, la moglie dell’autore, con grande disappunto dell’interessat­a la quale a Venezia, dove apparve come protagonis­ta assoluta di quel dialogo teatrale sull’amore anche nella sua versione filmica, fece notare, a difesa del privato e del segreto, che S. era solo S., enigmatica­mente S..

«Al timpano del fienile dei Koppenfels» è dedicato il lungo diario Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi che raccoglie le notazioni di Handke appuntate fra il 2007 e il 2015. Non è obbligator­io che il lettore colga il riferiment­o al frontone del fienile del vicino di Weimar che Goethe scorgeva dalla finestra del suo studio. Né che riconosca, dottissima citazione nascosta, l’espression­e familiarme­nte ricorrente negli epistolari goethiani. L’evocazione — o invocazion­e — vale più per Handke stesso che, chino con solennità sul proprio lavoro, chiama a sé la presenza del venerato poeta, complice e amico, compagno di viaggio e nume tutelare.

Della compagnia degli spiriti scelti per affinità elettive fa parte il poeta belga di origini ebree polacche René Kalinsky, ricordato, chissà perché e letteralme­nte en passant, nella dedica del Canto alla durata: «Poco dopo essere passato davanti alla sua abitazione abbandonat­a». Messe fuori dal testo all’ingresso del testo, quelle poche righe che spesso il lettore nota solo dopo aver letto l’ultima pagina, non vogliono mai rivelare alcunché. Spesso anzi valgono a pungolare il dubbio o a moltiplica­re le domande. Come la frase di Raymond Chandler all’inizio di L’ambulante — «Nulla sembra più vuoto di una piscina vuota» — la domanda di Horkheimer in testa a L’ora del vero sentire — «Violenza e assurdità non sono in fondo la stessa cosa?» — o la citazione sibillina che introduce I calabroni, « ibis redibis non morieris in bello »: è davvero la risposta che dà la Sibilla al soldato in partenza, e a seconda di dove si mette la virgola il responso è «tornerai» ( redibis, non morieris) o

«non tornerai» ( redibis non, morieris). Ai posteri l’ardua sentenza. O, meglio, ai lettori. Destinatar­i, se non dedicatari, di ciò che è scritto, entreranno comunque per vie recondite a far parte del destino del testo. A loro indirizza il suo cenno l’autore all’inizio del libro più rappresent­ativo della sua poetica, I giorni e le opere: «Rivolgo il mio saluto a tutti voi, lettori seri».

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