Corriere della Sera - La Lettura
Tante apocalissi non sempre tragiche
Nell’immaginario comune, il termine «apocalisse» rimanda al cupo scenario della fine dei tempi o, in ogni caso, a uno svolgersi di eventi sanguinosi e drammatici. In realtà, il significato originale del termine greco è «rivelazione», in forma di autosvelamento del divino e della sua attiva presenza nel mondo, non solo alla fine di esso. Come noto, l’equivoco è largamente dovuto al ruolo centrale che nella cultura occidentale ha svolto una specifica Apocalisse, quella di Giovanni, posta a chiusura del Nuovo Testamento.
In realtà, a partire dal IV secolo a.C., ebrei prima e cristiani poi hanno prodotto una vasta letteratura di questo tipo, mettendo per iscritto le proprie visioni o, più frequentemente, attribuendole a personaggi autorevoli, da Enoc a Isaia, da Pietro a Paolo. Lontane dall’essere opera di esaltati, le diverse apocalissi sono il prodotto di una complessa interazione tra autore, pubblico e contesto religioso, che il messaggio visionario può, a seconda dei casi, destrutturare o rinsaldare nella sua funzione sociale.
Luca Arcari introduce a questa letteratura con il corposo saggio
Vedere Dio (Carocci, pp. 442, € 39), che dà conto di tutte le sue sfaccettature nel passaggio dall’esperienza alla narrazione e alla scrittura.