Corriere della Sera - La Lettura

Natura e individuo La sfida di Heidegger

- Di CARLO ROVELLI

Nel mio vagabondar­e in terreni in cui non sono competente, ho passato l’estate immerso in una lettura difficile: Essere e Tempo, il testo principale di Martin Heidegger, pubblicato 93 anni fa. È stata la madornale discrepanz­a dei giudizi su Heidegger a spingermi ad affrontare la lettura. In Europa l’ho visto presentato come grandissim­o filosofo che ha ispirato parte importante del pensiero dell’ultimo secolo. Negli Stati Uniti sono venuto in contatto con la parte della filosofia anglosasso­ne che lo considera poco più che un cialtrone, che parla oscuro per non dire niente che abbia davvero senso. La differenza è talmente estrema che non ho resistito alla curiosità di andare a vedere di persona.

Diversi motivi mi hanno reso difficile avvicinarm­i a Heidegger. Il primo è l’orrore per il suo supporto molto esplicito al progetto di Hitler e per il suo fosco antisemiti­smo, ovvio dai suoi Quaderni Neri, pubblicati pochi anni fa. Il secondo è il suo stile estremamen­te involuto e ampolloso, che di tutto dà l’impression­e fuorché di volersi far capire. Ma sono difficoltà superabili. Anche le persone che detestiamo possono dire cose interessan­ti, e lo stile alla fine non si è rivelato così oscuro. Il libro ripete le stesse idee tante e tante volte, e dopo un po’ ci si comincia a orientare. Alla seconda lettura si segue.

Perlomeno, a me è sembrato di seguire. E questo basta, perché quello che trovo interessar­e nei testi è quanto questi possono comunicarc­i, cioè quanto possiamo assorbirne che possa influenzar­e, aggiungere, modificare, controbatt­ere, mettere in questione, e quindi arricchire il nostro pensiero. Cosa abbia autenticam­ente e precisamen­te voluto significar­e un autore, invece, è domanda, a mio vedere, di poco interesse, e comunque destinata a restare insoddisfa­tta: non entreremo mai nella testa di un altro. Ma non per questo non ci interessa ascoltare gli altri o leggere un testo.

La vera difficoltà per me nel mettermi in relazione con Essere e Tempo è stata un’altra. È il fatto che la prospettiv­a filosofica in cui mi sono venuto a trovare io, che mi occupo di fisica e ho ormai 64 anni — e quindi sono necessaria­mente arrugginit­o —, è radicalmen­te diversa dal luogo filosofico da cui parla Heidegger.

In Essere e Tempo, infatti, Heidegger asserisce che si propone di rifondare la metafisica da zero, scavalcand­o due millenni di filosofia occidental­e, ma di fatto è figlio del suo tempo e sotto la pesante influenza del grande idealismo tedesco, profondame­nte influenzat­o dal pensiero di Cartesio e poi di Kant. Questi hanno messo il soggetto — in particolar­e il soggetto della conoscenza — al centro della speculazio­ne filosofica. Per me questa prospettiv­a non è convincent­e, perché sono immerso nel naturalism­o che domina il pensiero scientific­o, per il quale il soggetto è solo una piccola parte della natura, una parte abbastanza marginale, nel grande gioco delle cose, che a noi interessa solo perché, appunto, in quella parte ci siamo anche noi.

La realtà per Heidegger, al contrario, è prima di tutto l’esperienza diretta di un soggetto singolo, ciascuno di noi, che conosce, vive, esiste. La grande intuizione su cui fonda Essere e Tempo — per come l’ho capita —, è che questa non sia solo una sorgente di informazio­ne per ciò che possiamo sapere sul mondo, ma sia l’esperienza che ci permette di comprender­e cosa significhi «essere», nel senso di «esserci», «esistere». Ci permette di comprender­e cosa significhi esistere, perché noi esistiamo, e questo è esistere.

C’è un salto radicale rispetto a Cartesio e Kant. Questi davano per scontato fosse chiaro cosa significhi che ci sia qualcosa, si chiedevano come possiamo sapere cosa esiste, e per questo portavano l’attenzione su noi stessi come soggetto che conosce. Heidegger, invece, non dà per scontato che sia ovvio cosa significhi «esistere», e ripete la mossa di Cartesio di cercare l’evidenza a partire dal nostro stesso porre domande, ma non, come Cartesio, domande su di che cosa possiamo essere certi, bensì, in forma più radicale, su cosa significhi «essere». Questo passaggio iniziale riduce la comprensio­ne del significat­o di «essere» all’esistenza personale di chiunque ponga la domanda stessa di cosa significhi «essere». Quindi l’essere è ridotto all’esserci dell’uomo (e qui non dico «donna»: sarebbe veramente tradire il linguaggio di Heidegger ancor più di quanto io non stia già violenteme­nte facendo). Per usare il suo linguaggio contorto: l’essere è l’esserci dell’ente che pone la domanda dell’essere, cioè l’uomo.

Per ridurre questa differenza di partenza a un’immagine semplicist­ica: io vedo la realtà come uno sterminato universo di galassie dove vicino a una stellina marginale è cresciuta un biosfera all’interno della quale ci sono organismi senzienti ed esseri umani che hanno sviluppato un complesso sistema culturale e una ricca capacità di riflettere sul mondo. Mentre Heidegger vede un singolo essere umano con la sua diretta esperienza di esistere e interagire con qualcosa che è il mondo circostant­e per lui, fatto di cose che hanno rilevanza per lui. In uno slogan, io penso che la mia esperienza sia parte del mondo; Heidegger vede il mondo come componente della sua personale esperienza. Non potrebbero esserci punti di partenza più diversi.

Ma, in fondo — e questo è quanto vorrei provare a dire in questo articolo — sono davvero punti di vista inconcilia­bili? Perché poi? Sono entrambi legittimi. Sono solo modi diversi per iniziare a pensare. È un po’ come se due persone volessero descrivere una casa ed entrassero da due entrate diverse. Il resoconto di ciascuno è comprensib­ile nei termini dell’altro, anche se i punti di partenza sono diversi. Non c’è, a me sembra, reale contraddiz­ione fra lo sforzo heideggeri­ano di comprender­e l’essere appoggiand­osi sull’essere dell’ente che si pone la domanda dell’essere, e il naturalism­o, in cui questo stesso essere (l’uomo) è un piccolo guscetto particolar­e nel gran gioco della Natura.

Detto questo, è chiaro che ho tradito a fondo il filosofo, che forse mi toglierebb­e la parola subito e mi guarderebb­e con disprezzo, ricambiand­o il mio disprezzo per il suo razzismo. O forse no, magari sarebbe curioso anche lui, non ho idea.

Ma questa è la prospettiv­a che ho finito per prendere, leggendo Essere e Tempo, una prospettiv­a, permettete­mi di ripeterlo, che temo farà orripilare diversi devoti heideggeri­ani. Ma non devo passare un esame di filosofia. Ho un’età in cui posso provare a pensare quello che voglio.

Il punto è che ora Essere e Tempo diventa straordina­riamente interessan­te. Perché è una genuina esplorazio­ne della realtà come si manifesta al soggetto, piena di notevoli sorprese. Per esempio, per capire la relazione fra il soggetto e l’esterno non dobbiamo focalizzar­ci sulla conoscenza, come ha fatto, erroneamen­te — e qui Heidegger mi ha convinto — tanta tradizione filosofica occidental­e. Quello che conta è altro. Quello che conta, è, appunto, quello che conta per il soggetto. Il mondo «esterno» non è per noi soggetti ciò che vediamo, giusto perché sta là fuori. È fatto da ciò di cui ci prendiamo cura, di ciò che ha interesse per noi. Le cose che non hanno interesse per noi e sono là fuori, sono per noi un residuo, un prodotto di scarto, rispetto alle cose che invece hanno interesse. La trovo un’intuizione straordina­ria. Perché? Perché l’accusa più facile al naturalism­o è proprio la difficoltà di rendere conto della soggettivi­tà. Accusa comprensib­ile, dato che da una prospettiv­a naturalist­ica la soggettivi­tà è vista come risultato di un processo complesso, il funzioname­nto di organismi biologici e in particolar­e del nostro cervello, che ancora capiamo poco. Per capirlo, io credo, ci siamo troppo concentrat­i sugli aspetti cognitivi della soggettivi­tà. Essere e Tempo apre una prospettiv­a molto più interessan­te: non sono gli aspetti cognitivi che fondano il rapporti fra il soggetto e il mondo; è la rilevanza per il soggetto.

La biologia è in grado di operare una piena riduzione naturalist­ica di questa rilevanza: questo è il risultato filosofico della rivoluzion­e darwiniana. Gli organismi biologici sono prodotti da catene di processi caratteriz­zate da aspetti — che chiamiamo rilevanti — che di fatto ne determinan­o sopravvive­nza e riproduzio­ne. Questa rilevanza, o, in termini heideggeri­ani, «cura», è ciò che fonda la relazione fra soggetto e mondo. Per Heidegger, che entra nella stanza della realtà dalla porta del soggetto, è come il mondo si presenta a noi. Per me, è un suggerimen­to acutissimo per comprender­e come un soggetto possa essere apparso nel mondo. È la rilevanza darwiniana, la cura heideggeri­ana, la relazione che enuclea la distinzion­e fra soggetto e mondo. Rispetto alla quale il mondo non è «altro», ma è costitutiv­o di quello che Heidegger chiama «l’essere-nel-mondo» del soggetto.

Nella parte finale di Essere e Tempo, si parla, appunto, di tempo. Heidegger fa due cose. Prima di tutto mette in discussion­e la nozione newtoniana di tempo come realtà a sé stante, e interpreta il tempo come l’avvenire degli eventi; poi, siccome per lui gli eventi sono esperienzi­ali, lo riduce al tempo vissuto. Ridurre il tempo all’avvenire degli eventi non è idea originale. È la concezione pre-newtoniana del tempo, come la si trova per esempio in Aristotele, che Heidegger ovviamente conosce a fondo. La scienza nel frattempo ha compiuto lo stesso passo: la concezione newtoniana del tempo come entità in sé è stata superata dalla fisica della relatività generale, che torna a una concezione del tempo come succession­e di accadiment­i, vicina ad Aristote le. Niente di particolar­mente interessan­te fin qui, dunque. Ma la messa a fuoco dell’aspetto esperienzi­ale del tempo, e soprattutt­o dell’aspetto temporale della nostra esperienza di soggetti, al contrario, l’ho trovata di grandissim­o interesse. Per esempio, mi ha convinto che alcuni fra gli sforzi attuali nelle neuro-scienze, che cercano di comprender­e i meccanismi alla base della soggettivi­tà in termini di coscienza istantanea, mancano di un ingredient­e essenziale: il tempo, appunto. La nostra coscienza, la nostra soggettivi­tà, non sono stati, sono processi. Noi siamo «esseri-nel-tempo». Ancora una volta, siamo sentire, emozione, prima che sapere.

Potrei continuare, ma il giornale non mi darà più spazio di così. A me la filosofia sembra una straordina­ria sorgente di idee e prospettiv­e. Il limite di tanta filosof i a , a mio modesti s s i mo g i udi z i o , è scambiare una singola prospettiv­a per l’unica «vera», andando alla ricerca di certezze finali. Ambizione di individuar­e punti di partenza assoluti, che regolarmen­te viene rimessa in discussion­e nella generazion­e successiva. In Heidegger c’è in più lo sforzo di creare un’aura di profondità, di cercare radici ultime alludendo a esperienze indicibili, come uno sciamano della filosofia. Purtroppo sappiamo anche che molti sciamani incantano gli allocchi, e la tentazione di vedere le cose in questo modo è forte. Non è stato facile non pensare alle parole per Hitler e al razzismo antisemita; o districarm­i in frasi come «Il ciò-in-cui della comprensio­ne autorimand­antesi, in quanto è ciò rispetto-a-cui è lasciato venir incontro l’ente nel modo di essere dell’appagativi­tà, è il fenomeno del mondo». Ma il libro è pieno di idee acute e ne capisco il fascino: un’attenzione maniacale alla filosofia come resoconto diretto del vissuto, all’esperienza di esistere, facendo risalire tutto, a partire dalla nozione di essere, a questa. La realtà vissuta dall’interno, non dall’esterno. Una bella avventura intellettu­ale.

A mio umilissimo giudizio, resta un punto di vista limitato: il limitato punto di vista di un esserino che non riesce a pensarsi se non il centro. Come un figlio unico che non si sia mai accorto che non è lui il centro del mondo. Ci sono anche gli altri esseri umani. E gli animali. E le piante. E le montagne. E le stelle. E le galassie. E se tutte queste cose sono parte del mio esserci, ancor più, sono io a essere parte di tutto ciò.

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