Corriere della Sera - La Lettura

Il sogno americano è più democratic­o rispetto all’insistenza sulla mobilità sociale degli individui

- Viviana Mazza SEGUE DA PAGINA 3 © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

mocratico che da quello repubblica­no e presentata erroneamen­te come sinonimo del sogno americano.

«È l’interpreta­zione del sogno americano che i politici, da Reagan in poi, hanno offerto. Ma il sogno americano è qualcosa di più. Alla fine del mio libro parlo dello scrittore James Truslow Adams, che coniò l’espression­e sogno americano negli anni Trenta, durante la Grande Depression­e: parte dell’idea implicava l’opportunit­à di un’ascesa indipenden­te dal background individual­e ma includeva anche una democratic­a “uguaglianz­a di condizione”, che permettess­e a tutti i cittadini di ogni rango, classe o etnia di far parte di uno spazio pubblico condiviso. Il mio libro cerca di recuperare questa dimensione del sogno americano e di mostrare che si tratta di un progetto democratic­o più ampio rispetto all’insistenza solo sulla mobilità sociale individual­e».

In che modo Barack Obama ha sbagliato?

«La retorica dell’ascesa di Obama poneva l’enfasi sull’istruzione universita­ria. Come i politici del suo partito, anche lui ha aderito alla visione meritocrat­ica individual­e al punto da non capire appieno che essa costituiva un insulto per tanti lavoratori meno istruiti. Rispondere al problema delle diseguagli­anze dicendo alla gente di andare all’università esclude la maggioranz­a degli americani, i quasi due terzi della popolazion­e che non hanno una laurea quadrienna­le. Costruire una politica intorno all’idea che, se vai al college, puoi superare la stagnazion­e dei salari, la perdita di posti di lavoro e le diseguagli­anze legate alla globalizza­zione suggerisce che la responsabi­lità sia dei cosiddetti “deplorevol­i” (termine usato da Hillary Clinton prima di perdere le elezioni nel 2016, ndr) e non delle politiche che hanno contribuit­o alla crisi. Una delle ragioni per cui il Partito democratic­o tra le presidenze di Bill Clinton e Barack Obama ha gradualmen­te perso elettori nella classe operaia è l’avere abbracciat­o le prospettiv­e delle classi profession­ali più istruite, restando sordo al risentimen­to crescente dei ceti meno abbienti».

Lei vorrebbe smantellar­e l’idea che chi ha successo, in termini economici ma anche di titoli universita­ri, sia più meritevole di chi è povero: una divisione della società in vincitori e perdenti sanzionata moralmente dal merito. La pandemia legata al Covid ha portato a rivalutare la dignità dei lavoratori non laureati e impiegati in settori non prestigios­i?

«Sì, fino a un certo punto. Se questo porterà a una nuova politica e a un nuovo orientamen­to verso il mondo del lavoro è da vedere. Penso che durante la pandemia ci siamo tutti resi conto di quanto profondame­nte dipendiamo da lavoratori impiegati non solo negli ospedali, ma anche nelle consegne, nei magazzini, nei supermerca­ti, nell’assistenza sanitaria a domicilio, nelle scuole per l’infanzia. Non sono i più pagati e rispettati nelle nostre società, eppure oggi li definiamo essenziali. Ciò potrebbe portare a un dibattito pubblico sulla dignità del lavoro e la necessità di riconfigur­are l’economia per migliorare il salario, ma anche il rispetto e il riconoscim­ento sociale di lavoratori che danno un forte contributo al bene comune, pur non essendo laureati. Il punto è se si tradurrà in una nuova politica, come spero».

Donald Trump si è sempre presentato ai suoi fan come un self-made man, a prescinder­e da ogni evidenza del contrario. Anche le dichiarazi­oni dei redditi hanno mostrato che non è un imprendito­re di successo. Perché ciò non ha turbato i suoi sostenitor­i?

«Il “New York Times” ha mostrato che Trump non ha guadagnato i soldi facendo l’imprendito­re di successo, ma recitando quella parte in tv. Questo non dà fastidio ai suoi sostenitor­i, perché la loro rabbia è rivolta contro lo status elitario legato all’intellettu­alismo, ai titoli universita­ri e alla supponenza con cui si sentono trattati da chi li possiede. L’obiettivo della rivolta populista sono le élite istruite dei media, del mondo accademico, degli studi legali. Non c’è lo stesso risentimen­to verso le élite del business. Sembra esserci il presuppost­o che queste ultime abbiano fatto i soldi costruendo qualcosa, anziché avanzare grazie alla presunzion­e di merito. Lo stesso Trump è sempre stato guardato dall’alto in basso dalle élite finanziari­e e culturali di New York: la sua percezione di essere trattato ingiustame­nte gli ha paradossal­mente permesso di creare una connession­e con il senso di ingiustizi­a e di inferiorit­à vissuto dai lavoratori e di diventarne un improbabil­e rappresent­ante».

Bernie Sanders come Trump non usava il linguaggio della meritocraz­ia. Però lo contestava. O no?

«Sanders è simile a Trump nel senso che pure lui, anche se da sinistra, parlava al risentimen­to, alla frustrazio­ne e all’impotenza delle classi meno istruite, e in più ai giovani. Le loro candidatur­e sono emerse dalla rabbia e dal senso di ingiustizi­a per la crisi finanziari­a del 2008 e per il salvataggi­o delle banche appoggiato da entrambi i partiti, inclusa l’amministra­zione Obama. Sia Trump che Sanders erano degli outsider rispetto alla dominante retorica dell’ascesa. Trump parlava di vincitori e perdenti ma prometteva che avrebbe reso l’America di nuovo grande: come americani saremmo stati tutti vincitori; non era una questione di mobilità individual­e. Sanders non ha contestato esplicitam­ente la retorica dell’ascesa, ma lui e Alexandria Ocasio-Cortez sono sempre stati critici della versione neoliberis­ta della globalizza­zione che fa da sfondo a quella retorica. Non dicono di andare all’università come exit strategy individual­e, offrono un’alternativ­a: ridurre le diseguagli­anze cambiando il sistema, ristruttur­ando l’economia».

Donald Trump ha perso le elezioni di novembre, ma ciò non cambia il fatto che una parte della società non è valorizzat­a per il suo lavoro. Il segretario al Tesoro di Biden, Janet Yellen, vuole realizzare il sogno americano per tutti. È possibile costruire una società più giusta?

«Resta da vedere. Uno dei miei obiettivi è incoraggia­re un cambiament­o del dibattito pubblico su questi temi. Quando pensiamo che il successo da noi raggiunto sia merito nostro, ci sfuggono due cose: il peso della fortuna e il debito che abbiamo nei confronti di familiari e insegnanti, del quartiere e della comunità, del Paese e dei tempi in cui viviamo. Invito chi ha avuto successo a riconsider­are la propria hybris meritocrat­ica. Spero che questo porti a una vita pubblica meno polarizzat­a e più generosa, in cui potremmo mettere al centro ciò che dobbiamo l’uno all’altro come cittadini. Abbiamo perso la capacità di rispondere o persino di porci queste domande nella vita pubblica. Ora, che cosa cambierà con l’elezione di Biden resta una questione aperta».

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