Corriere della Sera - La Lettura

L’espansione dell’educazione superiore è al picco. Il virus impone attenzione ai lavori manuali e di cura

- Luigi Ippolito © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

che del mondo hanno enormement­e sviluppato l’educazione superiore nel corso dell’ultima generazion­e e abbiamo creato una scala unica verso la sicurezza e il successo. Se andiamo indietro di venti o trent’anni c’erano nella nostra società tante piccole scale verso l’alto: se eri una persona relativame­nte capace, competente, venivi notato e potevi scalare i ranghi della tua organizzaz­ione, che fosse un ospedale o l’esercito o le autorità locali. Ora ciò è molto più difficile perché adesso devi avere una laurea o addirittur­a un master per poter entrare in prima istanza in quelle organizzaz­ioni, quindi c’è molta meno promozione dal basso».

Troppa «testa», troppa conoscenza, dunque?

«Questo ragionamen­to è facile da girare in caricatura: non sono contro la produzione di conoscenza e l’alta intelligen­za, sono cose vitali, oggi più che mai. Per esempio servono persone altamente istruite e intelligen­ti per trovare il vaccino contro il Covid: ma questo non giustifica la creazione di una grande burocrazia cognitiva, fatta spesso di persone che non sono più capaci delle persone che fanno lavori manuali o di cura».

La pandemia ha portato a uno spostament­o di enfasi, si è colta l’importanza di lavoratori-chiave, specie nel settore della cura. È una svolta permanente?

«Sì. Venti o trent’anni fa espandere l’educazione superiore, creare più posti di lavoro cognitivi aveva senso: ma negli ultimi dieci anni non è più stato questo il caso, abbiamo raggiunto il picco della “testa” e un riequilibr­io stava cominciand­o già prima della pandemia. Viene fuori che l’economia della conoscenza non ha bisogno di così tanti lavoratori della conoscenza: questa è la nuda verità. L’intelligen­za artificial­e renderà superflui molti lavori cognitivi di medio e basso livello: la classe cognitiva si sta già lentamente restringen­do, la sua espansione si è fermata. C’è già una riduzione nel premio salariale per i laureati: era del 50 per cento in più rispetto ai non laureati, ora per gli uomini che non vengono da università di élite è meno del 10 per cento. E il 30 per cento dei laureati ormai non fanno lavori che richiedono la laurea. Il riequilibr­io stava già cominciand­o e spero che la pandemia rafforzi questa tendenza».

Di cosa hanno bisogno quindi le nostre società?

«Mentre abbiamo prodotto in eccesso lavoratori cognitivi al medio e basso livello, abbiamo un’enorme carenza di artigiani qualificat­i, a un livello di competenze tecniche intermedie. Abbiamo tanti accademici ma ci mancano i tecnici: assistiamo a una feroce crisi di reclutamen­to nel settore della cura, cioè fra gli infermieri, nell’assistenza sociale. Dobbiamo innalzare lo status e la retribuzio­ne di queste categorie».

L’espansione dell’élite cognitiva ha però comportato anche una grande mobilità sociale. Dobbiamo ora accettare una mobilità verso il basso?

«Ogni idea di equa meritocraz­ia richiede la mobilità verso il basso: altrimenti bisognereb­be espandere la classe cognitiva all’infinito. Finora ci si è basati su questo mito, che la classe cognitiva si potesse espandere per sempre: ma allora chi fa tutte le altre cose?».

Dunque una critica della meritocraz­ia nella sua versione esasperata?

«Il mio libro è in parte una critica della meritocraz­ia, così come è stata svolta in diversi altri saggi recenti. Ma il mio contributo è leggerment­e diverso: abbiamo scoperto che una perfetta meritocraz­ia è impossibil­e da attuare perché nelle società libere i genitori possono trasmetter­e molti dei loro vantaggi ai figli. La meritocraz­ia come ideale politico è emersa negli anni Novanta nel centro-sinistra, che aveva accettato il paradigma economico della destra, le riforme della Thatcher e di Reagan, e dunque aveva bisogno di una nuova narrativa, appunto la meritocraz­ia, che è stata fatta propria anche dalla destra. C’è dunque un consenso politico attorno ad essa: solo che non funziona molto bene».

Però c’è anche il caso opposto. Esiste un Paese dove la meritocraz­ia è pressoché sconosciut­a, dove prevalgono rapporti personali e affiliazio­ni: è l’Italia, ed è un Paese altamente disfunzion­ale. Forse la meritocraz­ia è un po’ come la democrazia: un sistema terribile, a parte tutti gli altri.

«Accetto questo punto. Ma è anche vero che in America ci sono più studenti nelle università della Ivy League provenient­i dall’1 per cento superiore della società che da tutto il 50 per cento inferiore: dunque la meritocraz­ia non funziona molto bene. Ma anche come ideale non è molto attraente: una società dove alcuni vincono e tutti gli altri si sentono dei falliti, in un’era di democrazia egualitari­a sembra fatta per creare il tipo di risentimen­to che alimenta il populismo, che è il risultato della tensione fra la promessa di eguaglianz­a nella sfera politica e la realtà della diseguagli­anza economica e di status».

Dunque aveva ragione Lenin, ogni cuoca dovrebbe imparare a governare lo Stato?

«Ovviamente abbiamo bisogno di una selezione meritocrat­ica per i lavori apicali: vuoi avere i migliori fisici nucleari alla guida del tuo programma di ricerca nucleare, non li puoi selezionar­e a sorte. Io sono per una selezione meritocrat­ica dei lavori ma contro una società meritocrat­ica. Una società meritocrat­ica non è un buon ideale, la meritocraz­ia dovrebbe essere solo un principio pragmatico per il mercato del lavoro, per allocare le persone più adatte ai lavori più adatti. Il punto non è sbarazzars­i della meritocraz­ia, ma spalmarla attraverso diverse abilità, che non siano solo quelle cognitive».

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