Corriere della Sera - La Lettura
L’espansione dell’educazione superiore è al picco. Il virus impone attenzione ai lavori manuali e di cura
che del mondo hanno enormemente sviluppato l’educazione superiore nel corso dell’ultima generazione e abbiamo creato una scala unica verso la sicurezza e il successo. Se andiamo indietro di venti o trent’anni c’erano nella nostra società tante piccole scale verso l’alto: se eri una persona relativamente capace, competente, venivi notato e potevi scalare i ranghi della tua organizzazione, che fosse un ospedale o l’esercito o le autorità locali. Ora ciò è molto più difficile perché adesso devi avere una laurea o addirittura un master per poter entrare in prima istanza in quelle organizzazioni, quindi c’è molta meno promozione dal basso».
Troppa «testa», troppa conoscenza, dunque?
«Questo ragionamento è facile da girare in caricatura: non sono contro la produzione di conoscenza e l’alta intelligenza, sono cose vitali, oggi più che mai. Per esempio servono persone altamente istruite e intelligenti per trovare il vaccino contro il Covid: ma questo non giustifica la creazione di una grande burocrazia cognitiva, fatta spesso di persone che non sono più capaci delle persone che fanno lavori manuali o di cura».
La pandemia ha portato a uno spostamento di enfasi, si è colta l’importanza di lavoratori-chiave, specie nel settore della cura. È una svolta permanente?
«Sì. Venti o trent’anni fa espandere l’educazione superiore, creare più posti di lavoro cognitivi aveva senso: ma negli ultimi dieci anni non è più stato questo il caso, abbiamo raggiunto il picco della “testa” e un riequilibrio stava cominciando già prima della pandemia. Viene fuori che l’economia della conoscenza non ha bisogno di così tanti lavoratori della conoscenza: questa è la nuda verità. L’intelligenza artificiale renderà superflui molti lavori cognitivi di medio e basso livello: la classe cognitiva si sta già lentamente restringendo, la sua espansione si è fermata. C’è già una riduzione nel premio salariale per i laureati: era del 50 per cento in più rispetto ai non laureati, ora per gli uomini che non vengono da università di élite è meno del 10 per cento. E il 30 per cento dei laureati ormai non fanno lavori che richiedono la laurea. Il riequilibrio stava già cominciando e spero che la pandemia rafforzi questa tendenza».
Di cosa hanno bisogno quindi le nostre società?
«Mentre abbiamo prodotto in eccesso lavoratori cognitivi al medio e basso livello, abbiamo un’enorme carenza di artigiani qualificati, a un livello di competenze tecniche intermedie. Abbiamo tanti accademici ma ci mancano i tecnici: assistiamo a una feroce crisi di reclutamento nel settore della cura, cioè fra gli infermieri, nell’assistenza sociale. Dobbiamo innalzare lo status e la retribuzione di queste categorie».
L’espansione dell’élite cognitiva ha però comportato anche una grande mobilità sociale. Dobbiamo ora accettare una mobilità verso il basso?
«Ogni idea di equa meritocrazia richiede la mobilità verso il basso: altrimenti bisognerebbe espandere la classe cognitiva all’infinito. Finora ci si è basati su questo mito, che la classe cognitiva si potesse espandere per sempre: ma allora chi fa tutte le altre cose?».
Dunque una critica della meritocrazia nella sua versione esasperata?
«Il mio libro è in parte una critica della meritocrazia, così come è stata svolta in diversi altri saggi recenti. Ma il mio contributo è leggermente diverso: abbiamo scoperto che una perfetta meritocrazia è impossibile da attuare perché nelle società libere i genitori possono trasmettere molti dei loro vantaggi ai figli. La meritocrazia come ideale politico è emersa negli anni Novanta nel centro-sinistra, che aveva accettato il paradigma economico della destra, le riforme della Thatcher e di Reagan, e dunque aveva bisogno di una nuova narrativa, appunto la meritocrazia, che è stata fatta propria anche dalla destra. C’è dunque un consenso politico attorno ad essa: solo che non funziona molto bene».
Però c’è anche il caso opposto. Esiste un Paese dove la meritocrazia è pressoché sconosciuta, dove prevalgono rapporti personali e affiliazioni: è l’Italia, ed è un Paese altamente disfunzionale. Forse la meritocrazia è un po’ come la democrazia: un sistema terribile, a parte tutti gli altri.
«Accetto questo punto. Ma è anche vero che in America ci sono più studenti nelle università della Ivy League provenienti dall’1 per cento superiore della società che da tutto il 50 per cento inferiore: dunque la meritocrazia non funziona molto bene. Ma anche come ideale non è molto attraente: una società dove alcuni vincono e tutti gli altri si sentono dei falliti, in un’era di democrazia egualitaria sembra fatta per creare il tipo di risentimento che alimenta il populismo, che è il risultato della tensione fra la promessa di eguaglianza nella sfera politica e la realtà della diseguaglianza economica e di status».
Dunque aveva ragione Lenin, ogni cuoca dovrebbe imparare a governare lo Stato?
«Ovviamente abbiamo bisogno di una selezione meritocratica per i lavori apicali: vuoi avere i migliori fisici nucleari alla guida del tuo programma di ricerca nucleare, non li puoi selezionare a sorte. Io sono per una selezione meritocratica dei lavori ma contro una società meritocratica. Una società meritocratica non è un buon ideale, la meritocrazia dovrebbe essere solo un principio pragmatico per il mercato del lavoro, per allocare le persone più adatte ai lavori più adatti. Il punto non è sbarazzarsi della meritocrazia, ma spalmarla attraverso diverse abilità, che non siano solo quelle cognitive».