Corriere della Sera - La Lettura
Il fascismo è stato una recita Oggi ci risiamo
Lo studioso americano Richard Sennett, una passione per il violoncello, sta preparando un saggio sulla dimensione teatrale della vita pubblica. Non nasconde i suoi timori: «I media digitali hanno aumentato il potere della performance, favorendo l’uso di un linguaggio impoverito. La gente sta perdendo ogni capacità di giudizio, come accade ai prigionieri nel mito platonico della caverna. Temo che in America la vittoria di Biden sia solo una parentesi in una lunga marcia verso l’autoritarismo. Ci sarà presto un altro Trump»
Richard Sennett è un sociologo americano che vive tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Nato nel 1943 a Chicago da una famiglia povera, ha vissuto un’infanzia difficile nel quartiere di Cabrini-Green, un sobborgo di edilizia popolare, oggi demolito, che al tempo era un luogo malfamato di emarginazione e violenza, il cui ricordo lo ha segnato per sempre.
Prima di dedicarsi alla sociologia, ha studiato musica, diventando un apprezzato violoncellista, ma ha dovuto abbandonare la professione per una ferita alla mano. Dopo la laurea e il dottorato nelle Università di Chicago e di Harvard, ha iniziato una brillante carriera accademica a Yale e poi a New York, al Mit di Boston e alla London School of Economics. Oltre alla sociologia, i suoi interessi comprendono l’arte e la letteratura; è infatti autore di tre romanzi, The Frog who Dared to Croak ( 1 982), An Evening of Brahms (1984) e Palais-Royal (1987), in cui traspare la sua passione per la musica e la politica. Attualmente è consigliere presso le Nazioni Unite per il programma sulle città e il cambiamento climatico.
L’esperienza dell’infanzia è stata uno dei principali motivi che hanno spinto Sennett a occuparsi di urbanizzazione, soprattutto nelle periferie delle grandi città. I suoi primi libri, Usi del disordine e Families against the City, entrambi del 1970, hanno rappresentato il terreno su cui lavorare, anche in collaborazione con la moglie, Saskia Sassen, sociologa di origini olandesi che ha studiato le città globali e i processi transnazionali.
Inoltre ha dedicato saggi fondamentali ai temi del lavoro, a cominciare da L’uomo flessibile (1998), dove analizza i rapporti d’impiego nella società postindustriale, frammentari e precari, caratterizzati da una durata sempre più breve, mentre un tempo coprivano l’intero arco della vita. La rapidità dei cambiamenti condiziona la vita familiare e sociale, mettendo in crisi l’identità personale e generando incertezza. Al lavoro è dedicata anche la trilogia dell’Homo faber, con L’uomo artigiano (2008), Insieme (2012) e il più recente Costruire e abitare (2018), scritto dopo una lunga pausa per l’ictus che ha colpito l’autore nel 2013.
Sennett ha registrato il metodo della sua ricerca e il rapporto con la narrativa in Il lavoro e le sue narrazioni, saggio raccolto ora dalla Fondazione Feltrinelli nel volume Perché lavoro?, che contiene anche interventi del francese Alain Supiot e del tedesco Alex Honneth, con un’introduzione di Annalisa Dordoni. Ma l’osservazione di Sennett riguarda ogni forma di socialità: in Il declino dell’uomo pubblico (1977) aveva già rappresentato, con largo anticipo, la tendenza, poi alimentata dai social, a mostrare il proprio privato, condividendo in ambito pubblico ciò che dovrebbe restare riservato. Al momento Sennett vive a Londra, dove lo abbiamo raggiunto per chiedergli del suo lavoro.
È annunciato un suo nuovo libro. Di che cosa si tratta?
«S’intitolerà Stage and Street (“La scena e la strada”): esamina le differenti specie di performance, quelle teatrali, musicali, cinematografiche, coreografiche. Si occupa sia delle performance artistiche sia di quelle politiche. Sono interessato alle relazioni fra le due, perché credo abbiano delle strutture comuni. Quanto alle performance politiche, mi incuriosisce il modo in cui i diversi leader usano i gesti e le parole. Il mio è quasi un lavoro investigativo, per capire perché qualcuno riesca così bene a imporre il suo potere sulle p e r s o n e . C o me n e l c a s o d i D o n a l d Trump. Più in generale mi interessa capire perché l’ideologia, e in particolare quella fascista, assuma una forma teatrale. Facendo leva sulle paure della gente».
Pare che la pratica della performance, l’abitudine dei politici di comportarsi come attori che entrano sulla scena della vita politica, sia diventata una prassi comune, utilizzata un po’ da tutti. I leader non cantano, non ballano, non suonano: il potere preferisce il teatro alle altre forme di performance. Dipende dalla spettacolarizzazione della politica?
«Certo, lo vediamo nel caso di Viktor Orbán in Ungheria. Bisogna capire che i social media hanno una grossa responsabilità: funzionano come amplificatori, hanno aumentato decisamente il potere della performance, usando però un linguaggio impoverito. Eppure, per la maggior parte del XX secolo, gli autori erano politicamente impegnati. Molti, come Jerzy Grotowski e Bertolt Brecht, hanno usato la performance per far crescere culturalmente il pubblico. Per le altre forme d’arte è così ancora oggi: l’arte dà energia alla gente, non è mai usata per reprimere. Purtroppo in politica le cose sono andate diversamente».
Ma qualcosa sta cambiando negli Stati Uniti con l’elezione di Joe Biden, non crede?
«Non credo cambierà. Anche quando Trump se ne andrà, non scomparirà un certo tipo di formazione culturale. Ci sarà un altro Trump. L’America, in questo, è un Paese diviso al cinquanta per cento. L’elezione di Biden rappresenta solo l’interruzione momentanea di un lungo processo verso l’autoritarismo. Temo che l’America diventerà un Paese fascista. È solo una questione di tempo».
In uno dei suoi primi libri, «Il declino dell’uomo pubblico» (1974), c’è un capitolo proprio dedicato all’uomo-attore, che può essere considerato il punto d’inizio di quest’analisi. Non c’è un legame stretto tra l’uomo pubblico e il politico che si muove come un attore, che recita per la platea dei suoi elettori? E non è forse la fase finale di un lungo declino storico?
«Winston Churchill è stato un grande performer, ma anche Margaret Thatcher, in politica, ha dimostrato una presenza drammatica. Ma la questione è più complessa, perché il politico-attore può riuscire solo se il suo pubblico perde la capacità di giudizio. Questo può accadere per le ragioni più diverse, di carattere economico o culturale. Pensiamo a Platone e all’allegoria della caverna: certe volte ci comportiamo come dei prigionieri involontari. E poi anche Benito Mussolini non è stato un bravo attore?».
Forse Mussolini è stato il primo politico a intuire l’immenso potere carismatico del gesto e della parola per