Corriere della Sera - La Lettura
Ai racconti di Ford il finale non serve
La nuova raccolta di storie brevi, appena uscita negli Stati Uniti, spazia fra Dublino, Parigi e gli Usa. Schegge di vita colte e restituite nell’assoluta autenticità, senza il bisogno di inseguire la frase a effetto o il colpo di teatro conclusivo
James Joyce, a malapena diciottenne, comincia nel 1900 a scrivere piccole prose che rifinisce con cura da miniaturista e chiama «epifanie» (al liceo, un paio d’anni prima, le definì « silhouette »). Stephen Hero, che verrà pubblicato postumo, contiene in uno dei suoi frammenti il «metodo Joyce»: «Per epifania intendeva un’improvvisa manifestazione dello spirito, nella volgarità della parola o del gesto come in un momento memorabile della mente stessa. Credeva che fosse l’uomo di lettere a registrare queste epifanie con estrema cura», epifanie che definisce come «il momento più delicato e evanescente». Il giovane Joyce ne accumula a decine: più tardi, attraverso i racconti di Gente di Dublino (1914) metterà a punto un uso dell’epifania come apparizione improvvisa di significato, come illuminazione della quidditas di Tommaso d’Aquino: l’essenza di una cosa che la fa essere ciò che è e non un’altra.
È uno strumento fondamentale non soltanto per la sua opera — «la chiave del labirinto?», si domandava il critico Robert Scholes cinquant’anni dopo Gente di Dublino — ma soprattutto per gli scrittori di racconti arrivati dopo: nel mondo anglosassone da William Faulkner a John Cheever, da Raymond Carver a Joyce Carol Oates, da John Updike ad Alice Munro, il perno della storia breve è quasi sempre l’epifania joyceiana.
Più di trent’anni fa il recensore del «New York Times», davanti alla prima raccolta di racconti di Richard Ford, Rock Springs (pubblicata in Italia, come tutto Ford, da Feltrinelli), scrisse che la prosa fordiana è fatta di «momenti luminosi, momenti che possono cambiare il modo in cui il lettore vede le cose, e il modo in cui pensa».
Per citare Joyce (e Tommaso d’Aquino), la claritas — «luminosa silenziosa stasi del piacere estetico» — è anche quidditas. La nuova raccolta di racconti di Ford, Sorry For Your Trouble, uscita negli Stati Uniti e in arrivo in primavera da Feltrinelli, è la quinta dello scrittore settantaseienne (i romanzi sono sette, in attesa di Be Mine, previsto in uscita americana tra un anno circa) e ci regala un Ford diverso, tanto sicuro dei suoi mezzi tecnici da semplificare la narrazione al punto di abbandonare lo strumento dell’epifania per sostituirla, semplicemente, con la vita.
Un appuntamento parigino finito male, una morte in famiglia, un adulterio, le riflessioni di un vedovo: Ford racconta storie classiche in modo classico rimuovendo però l’aculeo dell’ultima parola riservata allo scrittore. Lascia i suoi lettori, con un atto supremo di fiducia nella loro intelligenza, liberi di considerare i suoi nove racconti che non hanno un’epifania, un momento di illuminazione, che non hanno una «morale».
Nel clima letterario del 2020, si tratta di un atto rivoluzionario: Ford non è uno scrittore politico, non è uno scrittore identitario — si è sempre sottratto con orrore a tutte le etichette — e ha sempre dribblato le aspettative. Si offese, da giovane, quando Edgar Lawrence Doctorow lo definì uno scrittore «sudista» (è scappato dal natìo Mississippi) e tutto quel che c’è di innegabilmente maschile — l ’e t hos hemingwayano, l a ca cc i a , l o sport, la solitudine dei suoi protagonisti uomini — viene stemperato nel suo profondo interesse per le donne, l’orecchio per il loro modo di parlare e lo sguardo attentissimo sul loro modo di pensare (alla compagna della vita di Ford, la moglie, sono dedicati tutti i suoi libri con un semplice KRISTINA tutto maiuscolo, quasi un ex libris: tutti questi libri sono tuoi).
Il dominio tecnico su ogni parola di questi nove racconti — c’è l’Irlanda, c’è Parigi, ci sono i golf club vietati agli ebrei del Profondo Sud nel quale Ford continua a tornare senza nostalgie sentimentali — è strabiliante: una moglie tradita smaccatamente dal marito gli chiede: «Come pensavi che sarebbe andata a finire?», e l’unica risposta possibile è: «Non lo so. Forse non ci ho pensato», frase che il marito (presto ex marito) pronuncia «cercando di sorridere» e in quelle tre parole ci sono oceani, galassie di solitudine. Una porta, per il Ford del tardo periodo della sua carriera straordinaria, non è semplicemente una porta: una porta viene lasciata socchiusa «come se, all’interno, stesse succedendo qualcosa» e invita noi lettori/spettatori a curiosare, quasi sbirciando nella pagina.
Sorry For Your Trouble ha in copertina, nell’edizione americana e in quella britannica, una foto di Ross Mulligan: lampioni nella nebbia, una panchina quasi invisibile nella luce verdastra di un’alba irlandese. John Banville, che è irlandese, ha definito lo stile della vecchiaia di Ford «agile, allusivo, scherzoso con malinconia, e quietamente elegiaco... è uno scrittore meraviglioso».
Gordon Lish, editor, guru letterario e «miglior fabbro» di tanta letteratura americana degli ultimi 50 anni, insisteva sempre con gli studenti dei suoi seminari — e con i suoi scrittori — su un punto, ossessivamente: «Dammi una frase vera», chiedeva. Ford lo odia (l’ha definito qualche anno fa in un’intervista con «la Lettura» un «brutto bugiardo figlio di puttana» e lo accusa di essersi preso il merito del successo di Raymond Carver, amico al quale Ford ha voluto molto bene) ma, antipatia personale a parte, il suo metodo non potrebbe essere più diverso: i personaggi, spiega Ford, «sono fatti di linguaggio», compreso Frank Bascombe, il protagonista ricorrente dei suoi romanzi (anche del prossimo). Il punto non è riuscire a scrivere «una frase vera» ma raccontare la vita nella sua complessità, nella sua ambiguità, nella sua mancanza, quasi sempre, di illuminazioni.
Terry Jones, recentemente scomparso, ebbe negli anni Sessanta l’idea rivoluzionaria che ha portato i Monty Python sulle vette aristofanee della commedia: gettare nel cestino della carta straccia la battuta finale, la punchline sulla quale si basava la comicità da alcune migliaia di anni. Bastava creare, spiegò Jones ai compagni di avventura, una situazione tanto buffa, tanto assurda, da rendere superflua l’ultima battuta (cosa che richiede, ovviamente, un dominio tecnico della scrittura assoluto, oltre a un talento altrettanto assoluto).
In una vecchia intervista al piccolo giornale della cittadina del Montana dove ha una casa, Ford ha detto — come sa fare lui — una cosa che ci fa capire molto se non tutto: «Le storie, non importa come vanno a finire o come si sviluppano, sono comunque utili. Portano redenzione nelle nostre vite perché dicono ai lettori: “Questa cosa che ti sto raccontando parla della vita, perché la vita merita di essere osservata più da vicino. È la cosa che attraversi ogni giorno, e a malapena ti accorgi di lei. Ma in realtà è tutto quello che hai”».
Quattro anni fa, nel breve, devastante memoir Tra loro, Ford ha definito la scomparsa di suo padre Parker nel 1960 il motivo per il quale è diventato scrittore. La morte di un commesso viaggiatore che ha trasformato suo figlio sedicenne dislessico «che non aveva mai terminato un libro in vita sua e non l’avrebbe terminato per altri tre anni» in uno scrittore. Oggi, a quarantaquattro anni dall’uscita americana del suo primo libro (Ford senza Inge Feltrinelli sarebbe inedito in Italia: fu bocciato da tutti i nostri editori) può fare a meno delle epifanie, della «frase vera» che colleghi meno grandi di lui usano come gancio per le loro storie e, a volte, per le loro carriere. Può avvolgere le sue storie nella nebbiolina di Dublino, nell’oscurità di un bar parigino: le illumina la vita.
Nel 1869 Henry James scrisse da Venezia, irritatissimo, una lettera a suo fratello William: era andato in pellegrinaggio artistico da Tintoretto che gli apparve però «fortemente penalizzato in quanto, con appena un’eccezione, i suoi quadri sono atrocemente appesi e illuminati». Due decenni più tardi, ancora incredulo, James rincarò la dose prendendosela con le «piccole malandate cappelle» veneziane: «Si può dire, in pratica, che a Venezia non si vede mai il Tintoretto... molti capolavori si nascondono nell’oscurità scomoda delle cappelle laterali e delle sacrestie... alcuni di loro, nascosti, soffrono in un’oscurità che non potrà mai essere esplorata». Ford nasconde i dettagli delle sue storie più recenti nel chiaroscuro, senza paura dell’«oscurità inesplorabile» così invisa a Henry James: Tintoretto poteva contare sulla luce divina, a Ford basta quella della sua luminosa vecchiaia di scrittore.