Corriere della Sera - La Lettura
Faulkner, il razzista innocente
Michael Gorra difende il valore dello scrittore che nel 1949 vinse il Nobel, oggi accusato di avere dato voce al Sud schiavista: «I suoi limiti sono una versione dei nostri». E infatti anche l’afroamericana Toni Morrison lo ammirava
Toni Morrison, che gli aveva dedicato la tesi del Master in letteratura americana, ne ammirava l’implacabilità nell’indagare il passato. «Leggo William Faulkner per conoscere gli Stati Uniti — diceva — in un modo che i libri di storia non permettono di fare». Nel 2016, commentando la vittoria di Trump, osservò che Faulkner aveva capito meglio di chiunque altro come la perdita dei propri privilegi apparisse ai bianchi «così spaventosa da precipitarsi verso una piattaforma politica che promuove la violenza sugli indifesi». Oggi Faulkner, come altri ( Ma quant’era razzista Flannery O’Connor?, titolava il «New Yorker» pochi mesi fa), lo si vorrebbe cancellare. Uno dei più grandi scrittori americani, Nobel per la letteratura nel ’49, è diventato scomodo e va perciò rimosso dalle letture consigliate a scuola e all’università. L’accusa? Non aver rinnegato il razzismo di sistema. Ma è giusto giudicare Faulkner, nato nel Mississippi del 1897 e vissuto durante la segregazione, con la sensibilità odierna? È giusto condannarlo se l’America stessa, cent’anni dopo, con quel razzismo stenta ancora a fare i conti? Un saggio di Michael Gorra, studioso di Faulkner e docente di letteratura americana allo Smith College ( The Saddest Words: William Faulkner’s Civil War), prende le difese dell’autore, dimostrando che se Faulkner non potè sfuggire alle aberrazioni del suo tempo, ne fu sempre tormentato, e nei suoi libri riuscì a emanciparsene.
Parte biografia letteraria, parte rievocazione storica, The Saddest Words rilegge Faulkner attraverso la Guerra Civile (1861-65), «la guerra infinita», che Faulkner raccontò in 19 romanzi e oltre cento racconti. Un lavoro che, nelle parole di Morrison, è il risultato del rifiuto dell’autore di distogliere lo sguardo dal terribile lascito della propria terra. Attraverso la continua rivisitazione di storie e personaggi della fittizia contea di Yoknapatawpha, prequel, sequel e spinoff, Faulkner racconta il Sud, dalle piantagioni di cotone al mito della Lost Cause (la causa persa della Guerra Civile), e le sue scioccanti verità. Nel farlo, racconta l’America.
Vero, Faulkner può apparire offensivo. Il linguaggio razzista permea i suoi romanzi. Ma non perché Faulkner fosse razzista (e lo era, come lo sarebbe stato, allora, qualunque pronipote di un colonnello schiavista dei Confederati), quanto perché, osserva Gorra, voleva riportare fedelmente il linguaggio abominevole della cultura bianca. Altra obiezione spesso mossa a Faulkner è come possano i suoi libri essere considerati grandi romanzi sul razzismo se non hanno protagonisti neri. Lo sono perché, come scriverà James Baldwin, «la condizione del negro in America è una forma di follia che colpisce i bianchi». E nessuno ha raccontato quella follia meglio di Faulkner. Come avrebbe potuto, del resto, Faulkner, sapere che cosa volesse dire essere nero? La sua grandezza sta nel raccontare le vergogne dei bianchi.
Vero, mancano le frustate, la separazione delle famiglie che la vendita di schiavi comportava; i neri di Faulkner, pur molto diversi dalle caricature di tanta letteratura bianca del Sud dell’epoca, sono bidimensionali. Al contempo, i suoi racconti degli schiavi che fuggono verso la libertà non hanno eguali e anticipano la storiografia moderna.
Faulkner non è un apologeta del Vecchio Sud. Forse, il racconto più potente che Faulkner fa della Guerra Civile si trova in Assalonne, Assalonne! (1936). Dove l’incesto è meno un tabù, per una famiglia dell’alta borghesia del Sud, di quella goccia di sangue nero che infangherebbe il proprio lignaggio. «Non è l’incesto che trovi intollerabile — dice Charles Bon a Henry Sutpen prima che questi lo uccida — è l’incrocio di razze».
Non che le idee di Faulkner non fossero problematiche. Certe sue dichiarazioni in termini di giustizia e progresso sociale erano sconcertanti. In un’intervista del 1956 affermò che se il Sud fosse stato costretto a integrarsi, sarebbe sceso in strada col fucile e non avrebbe esitato ad ammazzare dei neri (parole pronunciate, pare, in stato di ubriachezza, e poi smentite). E se da un lato condannava i linciaggi, chiedeva che il movimento per i diritti civili procedesse senza l’urgenza auspicata da Martin Luther King, per permettere la «salvezza morale» del Sud. Fu Baldwin a rispondergli, osservando che quella salvezza sarebbe stata possibile solo a costo di posticipare la giustizia per i neri, cosa non più concepibile.
Recensendo il saggio di Gorra per l’«Atlantic», Drew Gilpin Faust, presidente emerita dell’Università di Harvard e autrice di un importante testo sulla Guerra Civile ( This Republic of Suffering: Death and the American Civil War), ricorda che Assalonne, Assalonne! uscì lo stesso anno di Via col vento, con ben altre fortune. «Furono i chiari di luna e le magnolie di Via col vento ad attirare il plauso del pubblico — nota — e non il ritratto bruciante dell’eredità della schiavitù fatto da Faulkner. Margaret Mitchell, non Faulkner, vinse il Pulitzer».
I Confederati come eroi, la schiavitù come istituzione necessaria e benigna: era questa la visione del tempo. Ma è soprattutto per le sue mancanze, non a dispetto di esse, che dobbiamo continuare a leggere Faulkner. «L’idea di cancellare Faulkner — spiega Gorra a “la Lettura” — si fonda sulla convinzione che nelle stesse circostanze saremmo stati migliori. Ma i suoi limiti sono una versione dei nostri, prodotto ed emblema di un passato che ha formato generazioni di americani. Faulkner non avrebbe potuto capire la società del tempo se non ne avesse fatto parte, e la sua ripugnanza, per quel mondo e per sé stesso, è viscerale e fortissima».