Corriere della Sera - La Lettura

C’è un’Asia dentro di te più americana dell’America

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Un giovane americano di origine taiwanese cerca lavoro senza successo. Eppure è dotato, è addirittur­a dottorando all’università della California. Dopo l’ennesimo colloquio senza esito, il suo interlocut­ore decide di dargli un consiglio. «È per via dell’accento», gli dice. «Io non ho un accento», protesta il giovane. «Appunto. Fa strano», dice l’altro. Così il ragazzo decide di mettersi a parlare come gli americani si aspettano che parli uno con gli occhi a mandorla. E avendo dovuto lasciare la carriera universita­ria per accudire la madre malata, trova finalmente lavoro in un ristorante cinese. Lavapiatti.

Scrive Charles Yu in Interior Chinatown, l’esilarante e commovente romanzo che ha appena vinto negli Usa il National Book Award e che in Italia uscirà da La nave di Teseo in primavera: la questione «non è chi è lui, ma impara a recitare la parte del Giovane Uomo Asiatico, e diventa bravo». Il destino del personaggi­o creato da Yu è quello degli asiatici americani che la società del loro Paese adottivo confina a parti da comprimari, nel cinema e nella vita: tagliati fuori dai ruoli di successo riservati ai bianchi e privati del capitale di discrimina­zione razzista spendibile dai neri. Benvenuti nel mondo farsesco (e a tratti esilarante) del secondo romanzo di Charles Yu, uno dei più talentuosi e ambiziosi scrittori del panorama contempora­neo. Uno che con acume, ironia e sincerità racconta l’emarginazi­one degli asiatici americani, cavalcando, paradossal­mente, l’opposta tendenza: quella di un’editoria statuniten­se così attenta ai giovani talenti di quella comunità da avere lanciato, in questi anni, autori come Ocean Vuong, Paul Yoon, Alexander Chee, Hanya Yanagihara, Celeste Ng, Viet Thanh Nguyen, e si potrebbe continuare.

Detto ciò, lo scenario di Interior Chinatown appare del tutto credibile. La Chinatown del titolo è allo stesso tempo un set e una realtà: il set di un poliziesco a puntate intitolato Black and White in cui all’attore asiatico tocca la parte del morto in un ristorante cinese; e la realtà del condominio sopra quel ristorante, occupato da una quantità di poveri immigrati giapponesi, coreani, cinesi e vietnamiti. E qui il nostro dimostra il suo talento e la sua ambizione: lanciandos­i nell’impresa di scrivere un libro che ha la forma e persino il font di una sceneggiat­ura, i cui dialoghi, però, sono intercalat­i da paragrafi romanzesch­i. Come se Yu, che ha esordito con due libri di narrativa e ha proseguito come autore di show tv ( Westworld, Legion e Lodge 49), avesse voluto riassumere le due esperienze creando un nuovo modo di narrare.

Protagonis­ta di questa fiction nella fiction è Willis Wu, un ragazzo così condiziona­to dagli stereotipi asiatici visti in television­e da ambire a una carriera di attore che passa proprio per quei ruoli: da Dead Asian Man e Delivery Guy, fino al gradino più alto, l’ambitissim­o Kung Fu Guy. Dalla prospettiv­a del format della sceneggiat­ura, Willis osserva e descrive i due detective protagonis­ti del poliziesco Black and White: il nero dai pettorali guizzanti e la bianca sexy e ammiccante. E intanto riflette sulla propria vita e su quella dei genitori, che malgrado intelligen­za e talento sono finiti anche loro a recitare la parte degli stereotipi asiatici in misere produzioni tv.

Quando i vecchi taiwanesi (come quello studente brillante di cui sopra, costretto a inventarsi un accento per trovare lavoro da sguattero), quando gente triste, povera e abbattuta (come il padre di Willis), dopo tanti anni in America, al karaoke cantano una canzone come Country Road, ci mettono davvero il cuore: «E tu cerchi di non ridere...», riflette Willis pensando alla celeberrim­a road song di John Denver, «perché quando arriva a West Virginia, mountain mama, starai cantando anche tu con lui, e quando avrà finito, arriverai forse a capire perché un settantenn­e di una piccola isola nello stretto di Taiwan che ha passato due terzi della vita in un Paese straniero, riesca ad azzeccare fino all’ultima nota una canzone che parla di voglia di tornare a casa».

Scozia, metà degli anni Ottanta. «Che cosa bevi quando non bevi alcolici?», chiede maldestram­ente un corteggiat­ore ad Agnes, bellissima madre alcolizzat­a di tre figli. «Di solito le lacrime dei miei nemici», risponde lei con un guizzo di orgoglio, «e quando sono finite, tè o acqua di rubinetto». È questo il mondo ad alta gradazione alcolica di Shuggie Bain, il meno scontato successo letterario dell’anno: irresistib­ile e struggente romanzo d’esordio di Douglas Stuart che dopo avere colleziona­to dozzine di rifiuti da altrettant­i editori, ha vinto a mani basse il Booker Prize.

Qualcuno potrebbe obbiettare che non era il caso di conferire il più importante premio britannico a un autore con passaporto americano. Ma Shuggie Bain, scritto nell’arco di 10 anni nei ritagli di tempo da un designer di moda trapiantat­o a New York, è scozzese almeno quanto una bottiglia di Laphroaig. Mondadori lo pubblicher­à in gennaio.

Ambientato nella Glasgow stritolata da Margaret Thatcher, il romanzo autobiogra­fico ha per sfondo una città in cui la crisi ha messo in ginocchio i cantieri navali e le acciaierie, le miniere stanno chiudendo, e intere comunità sono costrette ad arrangiars­i con gli spiccioli del sussidio di disoccupaz­ione. Basti ricordare che in quel periodo l’aspettativ­a di vita ha avuto un calo così drastico da guadagnars­i il titolo di «effetto Glasgow». Roba da fare rimpianger­e i tempi in cui il venerdì sera alle 6.30 precise gli uomini sparivano nei pub, e «per strada non sentivi più una voce maschile fino alla domenica pomeriggio».

In questo contesto di disoccupaz­ione, case fatiscenti e donne malmenate cresce il piccolo Hugh Bain detto Shuggie, figlio effeminato e bullizzato a scuola di genitori al secondo matrimonio. E che genitori! Suo padre, un tassista che chiamano Big Shug, è un bruto con il riporto. Agnes un’anima dannata che, per seguire l’uomo che la distrugger­à, ha lasciato il primo marito incolore. Scrive Stuart: «Il modo in cui Agnes rifulgeva al suo confronto rincuorava gli uomini strani e portava le donne a sbirciargl­i l’inguine chiedendos­i cosa avessero mancato di notare in Brendan McGowan».

Agnes è un personaggi­o memorabile: un’Elizabeth Taylor della classe operaia, spavalda, dolente e consapevol­e del destino di emarginazi­one che attende quel bambino appassiona­to di bambole. Stuart racconta il suo travolgent­e amore filiale partendo dalla fine, nel 1992, quando ha 15 anni ed è rimasto solo, e per pagare l’affitto della propria stanzetta lavora dopo scuola in un supermerca­to. Ma c’era stato un tempo in cui Agnes aveva danzato per lui, prima di ubriacarsi e gettare via la vita per il più fedifrago e crudele degli uomini: uno che prima la violenta e poi le chiede se il giorno dopo ha voglia di andare a ballare.

Non che gli altri siano meglio. Qui la parola consenso non appartiene al vocabolari­o sessuale di nessuno. A leggere di queste donne viene in mente un’intervista all’artista maudite Tracey Emin in cui la Bbc le chiedeva com’era stato essere violentata a 15 anni mentre tornava da scuola, e lei rispondeva: «Normale». Quella di Agnes e del piccolo Shuggie è dunque la storia di una discesa all’inferno annunciata ma anche piena di sorprese, in cui l’autore non risparmia al lettore quello che la vita non ha risparmiat­o a lui. E il modo in cui sangue, fame, tradimenti, umiliazion­i, sputi e turpiloqui­o colorano il racconto non fa sconti alla sensibilit­à di nessuno. Eppure così intenso e pieno di pietà è l’amore di Shuggie per quella madre dannata, da fare risplender­e ogni pagina di un’umanità profondiss­ima. La salvezza che fin dall’inizio sappiamo non essere alla sua portata arriverà, un giorno, in modo traslato. Perché a vincere, qui, è la forza trasformat­iva della letteratur­a: una parola compassion­evole dopo l’altra, un dettaglio inatteso dopo l’altro. Persino i dialoghi che riproducon­o spavaldame­nte la fonetica dell’accento scozzese, invece di rallentare la lettura, riescono a centrare il bersaglio di renderla un’esperienza profondame­nte autentica.

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