Corriere della Sera - La Lettura

La «classe» è viva 30 anni senza Kantor

- Conversazi­one tra ROBERTO ANDÒ e FRANCO LAERA a cura di LAURA ZANGARINI

dove la finzione è bandita: un teatro come reale macchina delle emozioni.

L’opera di Kantor è un continuo attraversa­mento dei confini...

Kantor ha iniziato a fare teatro già da studente dell’Accademia di Belle Arti a Cracovia e già in quegli anni ha contaminat­o arte e teatro, dando origine così al suo concetto di «Teatro della Morte». I suoi attori avevano un unico modo per non fingere e imitare la realtà: immaginars­i «morti» in scena. La classe morta rimane tuttora il suo spettacolo cardine — ma Kantor lo definiva séance dramatique. Prese forma non in un teatro, ma in quella «Galleria Krzysztofo­ry », una cantina che era luogo di incontro di pittori e artisti di Cracovia.

In una lunga intervista a Kantor che Franco Quadri fece a

Venezia, il regista dice: non capisco come «persone serie, con profession­i serie, che mandano avanti il mondo — ingegneri, avvocati, giudici —, la sera vanno in un posto dove degli attori si travestono da Amleto, da Enrico IV. E credono alla finzione». Questo aspetto di «contestazi­one» del teatro è stato in Kantor molto vivo. L’impasto da cui è nata la possibilit­à del teatro di uscire da sé stesso con il conseguent­e senso di pericolo. Nella Classe morta, l’entrata in scena dei personaggi, con i manichini attaccati al corpo, è un’esperienza di un’intensità difficile da replicare».

C’è un ricordo di Kantor che volete condivider­e?

L’ultimo ricordo che ho di Tadeusz è a Parigi, stava per cominciare le prove di Aujourd’hui c’est mon anniversai­re («Oggi è il mio compleanno»), l’ultimo spettacolo. Aveva solo alcuni oggetti, dei materiali. Seduti in un bar, vicino alla Sorbona, mi raccontava la messinscen­a a suo modo, mi faceva ascoltare dei pezzi musicali. A un certo punto, passava qualcuno per strada, una figura bizzarra magari. Allora diceva: questo sarebbe perfetto per un cricotage, le sue brevi azioni teatrali. Aveva bisogno di ritrovare nella realtà i «modelli» che aveva nel suo mondo. I suoi attori erano le reincarnaz­ioni di quel suo mondo.

In quella «compagnia di folli» che era il Teatro Cricot 2, il cui nome è l’anagramma dell’espression­e polacca to cirk («ecco il circo»), all’incirca 15 persone, c’erano solo due attori profession­isti. Gli altri erano poeti, pittori, suo zio, sua moglie; due gemelli che face

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