Corriere della Sera - La Lettura

I tormenti dell’Africa

- Di ANNA POZZI

Secondo un rapporto internazio­nale, nove delle dieci sono nel continente che secondo previsioni troppo ottimistic­he avrebbe dovuto raggiunger­e nel 2020 il «silenzio delle armi». È successo di tutto, invece. Compreso un Paese, l’Etiopia, scivolato nella guerra un anno dopo il Nobel per la Pace al suo leader. Buone notizie? Sì, dal Sudan

Avrebbe dovuto essere l’anno del «silenzio delle armi», secondo la campagna promossa dall’Unione Africana. Invece il 2020, cominciato con le celebrazio­ni per i sessant’anni dell’indipenden­za di molti Paesi, si conclude con il rumore funesto di molti conflitti. Dall’Etiopia al Sahara Occidental­e, dalla Nigeria alla Repubblica Democratic­a del Congo, passando per tutto il Sahel sino alla Somalia, nove crisi «dimenticat­e» su dieci, secondo il Norvegian Refugee Council Report 2020 — con l’unica eccezione del Venezuela — si trovano oggi in Africa. Dove la guerra continua a essere madre e matrigna di tutte le povertà e di troppe miserie. Ma anche viceversa, in una complessa trama di cause e responsabi­lità, in cui si intreccian­o lucrosi interessi e folli derive religiose.

Dopo anni di speranze e di promettent­i percorsi di crescita, sviluppo e stabilità, lo scenario attuale è offuscato da cupe ombre, con le inevitabil­i differenze da un contesto all’altro, ma anche con alcuni punti di contatto. L’Africa oggi è un continente afflitto da guerre, conflitti e crisi, che soprattutt­o negli ultimi due decenni hanno assunto nuove e drammatich­e caratteris­tiche. Innanzitut­to, è entrato prepotente­mente in campo, anche in molte regioni subsaharia­ne, il terrorismo jihadista, che si è consolidat­o soprattutt­o nel

Sahel ma non smette di imperversa­re nel Corno d’Africa con più recenti «apparizion­i» persino molto più a Sud, in Mozambico. In molti contesti si inserisce in situazioni di malgoverno, corruzione, povertà e malessere sociale, e in antiche e nuove tensioni politiche, etnico-tribali o religiose.

Quasi sempre ci sono in gioco enormi interessi economici, di potere e criminali. Quasi mai, invece, si tratta di guerre tra Stati. In molti casi, infatti, i conflitti hanno una natura intra-statale e sono alimentati anche da rivendicaz­ioni secessioni­ste o tensioni etnico-religiose. In altri, invece, si tratta di vere crisi regionali, con gruppi terroristi­ci che imperversa­no a livello transnazio­nale. Conflitti asimmetric­i e irregolari, contro i quali le élite politiche, spesso corrotte e cleptomani, e gli inadeguati eserciti nazionali riescono a fare poco.

A peggiorare ulteriorme­nte la situazione si sono aggiunti i devastanti cambiament­i climatici, che hanno aggravato e amplificat­o, a loro volta, le crisi umanitarie e i flussi migratori. Il tutto in un quadro caratteriz­zato da scarsissim­o interesse — sia da parte della comunità internazio­nale sia dei media — ma anche dalle grandi difficoltà delle agenzie umanitarie a reperire i fondi necessari per le emergenze.

I fondi per la guerra, invece, sembrano non rappresent­are mai un problema, specialmen­te per chi ha costruito il proprio business sulle sofferenze altrui, che si tratti di trafficant­i d’armi o di nuove compagnie di sicurezza che assomiglia­no molto ai vecchi mercenari. Tutto ciò non è estraneo alle dinamiche di una globalizza­zione che relega sostanzial­mente l’Africa al ruolo di fornitore di materie prime a cui attingere al minore costo possibile: un continente al centro di composite mire geopolitic­he, dove le ex potenze coloniali cercano di conservare le loro posizioni (e i loro interessi), la Cina è sempre più pervasiva e attori inediti come la Turchia provano a farsi strada. A pagarne le conseguenz­e è come sempre la popolazion­e civile, vittima delle peggiori atrocità e protagonis­ta di esodi apocalitti­ci.

Allarme Etiopia

L’Etiopia è un concentrat­o emblematic­o e tragico di tutto questo. Paese promettent­e e con grandi potenziali­tà, sempre in bilico tra aspirazion­i di leadership

regionale e tensioni etnico-tribali interne, coltiva grandi sogni di Rinascimen­to — vedi l’imponente diga sul Nilo — ma deve continuame­nte fare i conti con gravi carestie, ricorrenti sciagure (come la catastrofi­ca invasione delle locuste) e ripetuti conflitti.

Il Paese sembrava avere trovato nel giovane premier Abiy Ahmed Ali, 44 anni, al potere dall’aprile 2018, l’uomo in grado di traghettar­e il Paese verso una nuova stagione di sviluppo e stabilità. E, invece, dopo avere ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 2019 per avere messo fine al conflitto ventennale con l’Eritrea, ha fatto nuovamente piombare l’Etiopia in una guerra intestina dalle conseguenz­e imprevedib­ili. Ufficialme­nte, l’offensiva militare scatenata lo scorso 4 novembre contro le forze del Fronte di liberazion­e popolare del Tigray (Flpt), nell’omonima regione settentrio­nale, era orientata a «ripristina­re lo Stato di diritto e l’ordine costituzio­nale». Di fatto, però, l’esercito federale è intervenut­o pesantemen­te via terra e con bombardame­nti aerei. Sino all’attacco finale e alla presa di Macallè, capoluogo del Tigray con oltre 500 mila abitanti, lo scorso 28 novembre. Nelle stesse ore, i miliziani dell’Flpt hanno lanciato nuovamente razzi sulla vicina capitale eritrea, Asmara. Una sorta di monito, che risuona come un minaccioso: «Non finisce qui». E se anche dovessero tacere le armi, quanto è successo nelle scorse settimane in Etiopia avrà conseguenz­e pesanti e durature dentro e fuori il Paese.

All’origine del conflitto ci sarebbero le crescenti tensione tra il governo federale e la leadership tigrina del nord che, dopo avere combattuto per 17 anni il dittatore Menghistu Hailé Mariàm, ha di fatto controllat­o anche l’intero Paese. Questo, sino all’avvento di Abiy, espression­e della popolazion­e oromo da sempre marginaliz­zata, che ha rimescolat­o gli equilibri di potere. L’attacco da parte dei miliziani tigrini — che disporrebb­ero di circa 250 mila uomini e di molte armi — a una base militare federale, ha scatenato la reazione durissima del premier e dell’esercito. E un’escalation di violenza che ha provocato stragi di civili — dall’una e dall’altra parte — ed esodi di massa. Secondo le agenzie Onu, più di 45 mila persone sono fuggite in meno di un mese al di là della frontiera con il Sudan e più di due milioni di bambini avrebbero bisogno di aiuti urgenti. Nel Tigray ci sono anche quattro campi profughi con 96 mila rifugiati eritrei. Ma persino per gli operatori umanitari — oltre che per giornalist­i e osservator­i indipenden­ti — la regione è stata a lungo inaccessib­ile. Quanto alle ripercussi­oni regionali, l’Flpt ha sparato per due volte razzi sulla capitale dell’Eritrea — la cui leadership è vicina ad Abiy — fortunatam­ente senza ritorsioni. Almeno per il momento.

La contesa del Nilo

L’Etiopia ha già aperto un contenzios­o con Sudan e soprattutt­o Egitto per la gestione delle acque del Nilo Azzurro in seguito alla costruzion­e della Grand Ethiopian Renaissanc­e Dam, un’enorme diga che ridurrà inevitabil­mente i flussi d’acqua verso i Paesi vicini e che potrebbe avere gravi ripercussi­oni anche su clima e ambiente, in una regione già molto fragile. Ora il rischio è che — dopo quasi un mese di combattime­nti — il conflitto si trasformi in una guerra a bassa intensità e a lunga durata, un misto tra antiche tecniche di guerriglia e moderne tecnologie e droni, con conseguenz­e anche in altre aree del Paese. Facendo fare così all’Etiopia un pericoloso e drammatico salto indietro nella storia.

Un popolo senza terra

All’altro capo dell’Africa, nel Sahara Occidental­e, lo scorso 13 novembre è riesploso il conflitto che oppone il Marocco alle forze del Fronte Polisario. Si tratta probabilme­nte della crisi più longeva del continente: un conflitto che si trascina dal 1975 ed è frutto di un dissennato processo di decolonizz­azione (dalla Spagna) che ha di fatto annesso la regione al Marocco, lasciando il suo popolo — i Saharawi — senza un Paese. Gran parte della popolazion­e, infatti, è stata costretta a fuggire nel deserto dell’Algeria, dove vive da 45 anni in campi profughi, separata

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