Corriere della Sera - La Lettura
Nell’altare della madre di Camon si specchia un paese che non gradisce
«Provai un senso di ostilità vedendo quelle signore inutili e vive: perché loro sì e mia madre no?». In Italia vinse la trentaduesima edizione del premio Strega, eppure dopo tanti anni, ancora si spalanca feroce la ferita di Ferdinando Camon se gli si nomina il suo Un altare per la madre (Garzanti, 1978) che gli costò l’espulsione dalla famiglia e dintorni. «Quand’è uscito, venivan lettori alla fattoria di mio padre per vedere il luogo e l’uomo, ma lui li cacciava con la frusta».
L’Altare chiudeva il «ciclo degli ultimi», ma ultimi e primi del suo paese non gradirono trovarsi riflessi dal potente specchio che l’autore pose di fronte alla madre, sì, ma dietro di lei nello specchio anche tutti loro, la loro miseria, la civiltà contadina verso il suo tramontare.
Inutile dirle — come quel bambino al suo cane morto — di «smettere di morire». L’Altare splende tutt’oggi come alabastro. Tempo fa, a Celle Ligure, Savona, fuori da un ferramenta, l’ho visto stagliarsi in una cassetta celeste, bibliotechina-su-muretto di tutti. Non la storica copertina garzantiana, una vecchia edizione del Club degli Editori, titolo a lettere cubitali, come d’oro, pareva anche lei un altare.
La costruzione dell’ara, da parte del padre, porta le ultime pagine del libro a un crescendo non facile da dimenticare. «Adesso è lì con la mano sul ginocchio gonfio che trema un poco... la parte in legno è finita, segata e saldata...», mancano rivestimento in rame e formelle, si sente il fuoco crepitare, poi ci saranno un malore, un incendio... E per Camon figlio ancora una decina di gloriose pagine, anche lui con dolore sta costruendo alla madre, fatto di parole, un altare.