Corriere della Sera - La Lettura
Michael Morpurgo: il mio profugo afgano sull’isola di Gulliver
Michael Morpurgo è uno scrittore che non si stanca mai di cercare modalità e temi per avvicinare i bambini alla lettura e, attraverso questa, trasmettere loro valori della vita quali amicizia, rispetto, dialogo, gentilezza. Come ne Il figlio di Gulliver (Piemme), appena arrivato sugli scaffali, un libro che affianca la realtà (la guerra in Afghanistan che costringe a fare scelte dolorose e coraggiose; l’arrivo in Occidente) alla fantasia (mondi e personaggi immaginari). Omar scappa dal Paese ma invece di arrivare in Gran Bretagna finirà sull’isola di Lilliput, la stessa dove approdò Gulliver; lì Omar, il «ragazzo gigante», vivrà incredibili avventure con i suoi nuovi piccoli amici; quando poi riprenderà il mare sarà salvato da una canoista...
Come è stato accolto «Boy Giant», questo il titolo originale, in Gran Bretagna dove è uscito nel 2019? Ai bambini è piaciuto?
«Penso che a loro sia piaciuto, ma è difficile dirlo. Molti miei libri impiegano un po’ di tempo per diventare familiari. Torni a chiedermelo tra 100 anni!».
Il libro fa riferimento a «I viaggi di Gulliver» (1726). Aveva letto il classico di Jonathan Swift da bambino? L’ha riletto da adulto?
«Sì, l’avevo letto a 10 anni. Ma solo la parte ambientata a Lilliput, che per me è la migliore della storia. L’ho riletto, tutto, mentre pensavo a Il figlio di Gulliver».
Nel mondo fiabesco, se potesse scegliere le piacerebbe essere un gigante o un lillipuziano?
«Un gigante, probabilmente, così non mi farei calpestare! Ma da quella posizione starei attento a dove metto i piedi».
Nella vita reale, che esperienza ha dell’ospitalità, uno dei temi centrali del libro?
«Durante la pandemia ho sperimentato l’ospitalità nella sua forma più ampia che è la gentilezza mostrata dai vicini. Mi ha ricordato l’importanza della gentilezza verso gli altri e quanto spesso nella nostra società sembriamo dimenticare l’importanza di questo atteggiamento».
E rispetto all’accoglienza: è mai stato accolto? O viceversa ha accolto qualcuno che aveva bisogno di aiuto?
«Sì, durante i miei viaggi. Ho incontrato persone che ci hanno invitato anche se eravamo sconosciuti; è accaduto spesso in luoghi di campagna dove l’ospitalità sembra essere ancora parte della cultura, ad esempio nei Pirenei, in Francia, quando siamo stati accolti in una casa di contadini; di quella visita ho scritto in Aspettando Anya. Spero di essere stato altrettanto accogliente. Gestiamo un progetto educativo in campagna dove accogliamo i bambini delle città: vengono a trascorrere una settimana in un luogo che altrimenti avrebbero poche opportunità di vedere».
Omar, il ragazzo gigante del libro, viene dall’Afghanistan. C’è mai stato?
«No, ma ho incontrato molti rifugiati afgani che sono venuti nel Regno Unito; venti di loro hanno visitato la nostra casa nel Devon e hanno giocato partite di cricket con le squadre locali. Erano anche molto bravi».
Purtroppo da quando è stato scritto il libro la situazione in Afghanistan è molto peggiorata. Secondo lei, c’è qualcosa che possiamo fare per aiutare quel popolo?
«Penso che probabilmente abbiamo “aiutato” abbastanza. Nel momento in cui siamo arrivati con gli stivali dei solda