Corriere della Sera - La Lettura
Ghiribizzi, sgorbi e altri ghirigori L’inconscio di Gillo
La Fondazione Cini ospita i disegni inediti dell’ultima stagione poetica di Dorfles. Viaggio in un’ossessione dai banchi di scuola fino alla maturità. Ne scrive uno dei curatori
Sono tante, forse anche infinite, le testimonianze che una persona, avendo vissuto a lungo, lascia dietro di sé; ma in questo caso siamo di fronte a un’esperienza unica nel panorama della cultura, non solo italiana. Gillo Dorfles, nato il 12 aprile 1910 e scomparso il 2 marzo 2018, ci ha lasciato i suoi ultimissimi lavori, visibili dal 12 novembre alla fondazione Cini di Venezia, come se fossero messaggi in una bottiglia abbandonata in mezzo al mare. Disegni e parole che sono, come lui stesso li ha definiti, «ghiribizzi che non mancano mai».
Gli indizi bisogna saperli leggere e Gillo li ha seminati in tutta la sua vita, dai primi scritti degli anni Trenta che coincidono anche con le sue prime «prove d’artista», all’ultimo libro, non a caso esposto alla mostra di Venezia, La mia America, accanto alla prima edizione del saggio Discorso tecnico delle arti, 1952, l’opera che è all’inizio di tutta la sua ricerca teorica ed estetica.
Ecco, i 21 disegni inediti, realizzati nel 2017 nella sua casa-studio di Milano, oggi sede dell’Associazione Gillo Dorfles, tra una lettura, una visita a una mostra, un piccolo viaggio di lavoro e soprattutto una serie di suonate con il suo pianoforte a mezza coda, austriaco, di famiglia; sullo sfondo le opere di alcuni amici, Lucio Fontana, Giuseppe Capogrossi, Emilio Castellani, Fausto Melotti tra gli altri, parlano di sé ma soprattutto rivolgono lo sguardo verso quello spazio, sempre sospeso tra reale e immaginario, dove ciascuno di noi vorrebbe cogliere ciò che non è in grado di definire con la ragione.
Questo è il grande mistero di una figura come Dorfles, anche per tutti quelli che lo hanno frequentato in amicizia e come complice di centinaia di avventure intellettuali. Come scrive Luigi Sansone, curatore delle sue ultime mostre e soprattutto autore del catalogo ragionato delle opere pittoriche, «queste ultime creature, tipiche della sua espressione artistica, nascono, come lo stesso Dorfles un giorno ebbe modo di raccontarmi, da un substrato d’inconscio formatosi nell’adolescenza, osservando alcuni disegni analoghi che suo padre si compiaceva di schizzare nelle pause della sua attività di ingegnere navale. Gli ultimi disegni, realizzati a pochi mesi dalla sua scomparsa, nascono con straordinaria creatività ed energia dal suo mondo interiore».
Dorfles diceva che dipingeva quelle forme perché lo ossessionavano, lo agitavano dentro. Certamente il desiderio di disegnare e dipingere, oltre che di scrivere, lo ha sempre accompagnato: «Ho sempre desiderato essere (o fare) il pittore. È l’atto di disegnare e dipingere che è stato per me, fin dall’infanzia, qualcosa di quasi coercitivo e mi ha obbligato a riempire di sgorbi (o erano mirabili invenzioni?) le pagine dei miei libri scolastici, il legno dei duri banchi delle me
die, la sabbia delle spiagge estive». Senza dimenticare mai che «l’arte per me costituisce un grandissimo divertimento».
Come scrive Renata Codello, segretaria generale della Fondazione Cini, tornare all’isola di San Giorgio significa riportare l’orologio del tempo indietro, quando «in occasione del convegno Arte
figurativa e Arte astratta, ottobre 1954, organizzato dall’allora Centro di Cultura e Civiltà, Dorfles inaugurò il suo intervento con questa riflessione, ancora attuale: a mio avviso, ogni tentativo scientifico volto a dimostrare la validità di assunti estetici è destinato, quasi sempre, a dimostrarsi arbitrario».
Emerge qui, con chiarezza e determinazione, la sua formazione di medico e psichiatra, conoscitore attento del pensiero di Jung, senza mai perdere di vista la sua sensibilità fenomenologica, là dove, come ha annotato con grande intelligenza critica Massimo Cacciari, in occasione delle presentazione dell’Associazione Gillo Dorfles, avvenuta nella Sala Buzzati della Fondazione Corriere della Sera nel mese di marzo 2019, «all’interno del modello fenomenologico, Dorfles si è sempre rivolto alle arti del proprio tempo nel segno del pragma, ovvero mettere al centro dell’analisi il contemporaneo nel suo svolgersi giorno dopo giorno, fatto dopo fatto, in quanto espressione del Modus attraverso il quale si presenta l’ora nel suo divenire». L’essenza delle arti si mostra nel «divenire delle arti», non a caso titolo di un suo saggio fondamentale, uscito nel 1959, a sette anni dal suo primo libro.
Ecco allora alcuni titoli dei disegni in mostra: La gara dei seni, dove due esseri femminili mettono apertamente in mostra le loro forme giunoniche; Ripulsa, in cui un uomo di spalle si allontana dopo avere ricevuto un diniego dalla sua bella; Un cane fedele, divertente scenetta che vede un cane seguire fedelmente il suo padrone dalle sembianze luciferine.
Luigi Sansone osserva giustamente che «le figure create da Dorfles sembrano avere la funzione di captare, come antenne tese nello spazio, i rapporti di forza e le tensioni che regolano la vita di tutti i giorni».
È sempre il Dorfles che vive l’arte nella vita e la vita nell’arte: non è un caso che il 25 novembre si inauguri presso l’Adi Design Museum di Milano la mostra dedicata al suo Abbecedario, realizzato per i nipoti Piero e Giorgetta negli anni Cinquanta, rinvenuto tra le carte; uno zio privato che si diverte a rendere ironico e soprattutto autentico l’apprendimento delle lettere dell’alfabeto e dei numeri, tra ricordi di viaggi, caricature e soprattutto apertura sul mondo degli «altri». È stato un privilegio per tutti noi contemporanei vivere accanto alla vita e all’opere di una figura unica del Novecento, e questi ultimi disegni, al di là della loro collocazione critica all’interno della sua produzione artistica, mettono in rilievo, senza alcun filtro intellettualistico, cosa significa essere contemporanei e nello stesso tempo mettere a disposizione una quantità infinita di materiali, non solo per comprendere la sua biografia culturale ma anche, forse, per comprendere meglio noi stessi.
Un solo esempio: in mostra l’unico quadro è un’opera del 2010, Vitriol, già presente in alcune esposizioni precedenti e soprattutto alla Triennale di Milano nel 2017, in occasione del primo svelamento di questa ricerca che si conclude ora alla Fondazione Cini. Vitriol è l’acronimo alchemico esoterico che significa Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, ovvero «visita l’interno della terra e rettificando troverai la pietra nascosta». È un invito che ci fa Dorfles, senza alcuna pretesa di verità; anche i suoi ultimi disegni che oggi vediamo a Venezia desiderano parlare di altro oltre che di sé stessi, senza alcuna pretesa pedagogica. Che cosa ci vogliono dire? Ce lo facciamo suggerire da Dorfles quando afferma in un dialogo comparso nel volumetto che accompagnava la mostra del 2017, ripubblicato ora nel catalogo da Electa: «C’è qualcosa che indubbiamente non è ammissibile se uno non crede nell’esistenza, oltre che del corpo fisico, anche di un corpo che possiamo chiamare spirituale o meglio “eterico”, come gli studiosi di antroposofia avevano definito questa tensione oltre la dimensione fisica dell’esistenza. Vitriol rappresenta un tentativo in questa direzione».
Qui appare il Dorfles che in una mostra precedente, da lui curata nel 2016, in occasione della XXI Triennale di Milano,
La logica dell’approssimazione nell’arte
e nella vita, afferma a proposito del futuro delle arti, che «è difficile prevedere ciò che potrà accadere nel prossimo futuro. Forse è più facile che si arrivi ad alcune fasi successive, dove si alterneranno tentativi di ritorno al geometrico accanto a un disimpegno totale, una sorta di “liberi tutti”. Il futuro sarà, io credo, un alternarsi di periodi opposti, nel segno di una costante “approssimazione relativa”. Tutto questo per affermare, ancora, che non è possibile vivere e progettare senza essere, consapevolmente, approssimativi».
Di nuovo il Dorfles che dal fatto singolo, il pragma, cerca di andare oltre per superare il destino del relativismo; certamente non è possibile uscirne, ma si può agire, sempre, come quest’ultima mostra dimostra, limitandosi a fare dei «ghiribizzi», nella consapevolezza che, come scrive Salvatore Settis, nell’ultimo suo saggio, Incursioni, dedicato a una rilettura del metodo «indiziario» di Aby Warburg, «il progetto di Warburg promette nuovi sviluppi nel nostro tempo, due in particolare: la mescolanza di alto e basso nella storia delle immagini e lo scambio, nei due sensi, fra il lavoro degli artisti e quello degli storici dell’arte». I Ghiribizzi di Gillo Dorfles appartengono a queste due ipotesi di ricerca; speriamo di trovarne altri nella sue carte e nei suoi inediti perché ne abbiamo bisogno.