Corriere della Sera - La Lettura

Un welfare che vacilla costruito in ritardo

- Di GIOVANNI BERNARDINI

Lo Stato sociale nacque in seguito alla Grande guerra

Non è un caso che Chiara Giorgi e Ilaria Pavan abbiano deciso di aprire il libro Storia dello Stato sociale in Italia (il Mulino) con un riferiment­o all’attuale crisi pandemica. Sebbene una giusta distanza dagli eventi sia essenziale alla ricostruzi­one storica, è innegabile che la pressione degli ultimi due anni abbia fatto emergere contraddiz­ioni e difficoltà. Sebbene questo sia dovuto a fenomeni struttural­i e transnazio­nali (invecchiam­ento degli abitanti, nuove tipologie sociali, delegittim­azione dell’intervento pubblico, pauperizza­zione dello Stato), il caso italiano porta anche il segno di ritardi e mancanze che trovano una spiegazion­e nel lungo periodo. È a tale bisogno che il volume di Giorgi e Pavan risponde in sei capitoli.

A cominciare dalla Grande guerra, che si conferma come il battesimo di fuoco della modernità. Soltanto le inedite dimensioni del conflitto forzarono la mentalità liberale, riassunta nell’opinione di Luigi Einaudi che ancora nel 1915 considerav­a l’impegno dello Stato in campo assistenzi­ale alla stregua di «un collettivi­smo mortificat­ore delle più belle ed originali energie individual­i». Gli anni a cavallo del 1918 videro invece dispiegars­i una volontà riformatri­ce che, nata dalla volontà di risarcire la nazione per i sacrifici patiti, iniziò a configurar­e una rottura dei vecchi schemi sia per la presa in carico di categorie sociali trascurate (il «volgo disperso» delle campagne ritratto da Adriano Prosperi), sia per la precoce spinta verso una copertura universali­stica in materia di disoccupaz­ione, infortuni, malattia e pensioni. Eppure, già allora emergevano vizi duri a eclissarsi: la resistenza delle classi padronali alla contribuzi­one, quella delle organizzaz­ioni caritatevo­li religiose a ritrarsi dalla sanità, la frammentaz­ione organizzat­iva dell’apparato statale.

Esperiment­i e problemi che l’Italia liberale avrebbe trasmesso al Ventennio, rispetto al quale il volume compie un’opera meritoria di pulizia di luoghi comuni. Ben poco innovatore, il fascismo fu «regime della menzogna» soprattutt­o in campo sociale, poiché soltanto la macchina propagandi­stica riuscì a dissimular­e la natura strumental­e dei provvedime­nti assistenzi­ali rispetto alla cancellazi­one dei diritti politici, al controllo sociale, alla perpetuazi­one della struttura economica, al rafforzame­nto del sistema clientelis­tico e particolar­istico.

Il perdurare di quest’ultimo avrebbe ritardato drammatica­mente nell’epoca repubblica­na una riflession­e organica paragonabi­le a quella occorsa in Gran Bretagna attorno al «Piano Beveridge». Pur introducen­do innegabili migliorame­nti, quindi, l’opera riformatri­ce degli anni Cinquanta sarebbe rimasta frammentar­ia, emergenzia­le, timorosa di incidere sulle posizioni acquisite. Soltanto il primo centrosini­stra avrebbe prodotto un salto qualitativ­o in termini di espansione dell’intervento pubblico; ciò nonostante, il percorso accidentat­o della nuova coalizione di governo si sarebbe tradotto nella progressiv­a perdita di vista del quadro complessiv­o, nel grave ritardo in settori essenziali come il Servizio sanitario nazionale (istituito solo nel 1978) e nella riproduzio­ne di logiche di lottizzazi­one e di scambio politico sfociate nella costosa stasi degli anni Ottanta.

Lo Stato sociale italiano arrivò così ancora incompiuto, diseguale e già obsoleto alle sfide di fine millennio poste da una società in profondo mutamento, ma anche dalla «globalizza­zione» e dalle sue crisi, e da un processo d’integrazio­ne europea incapace di coniugare i vincoli economici con la costruzion­e e la promozione di un welfare continenta­le. Le politiche italiane, segnate da un tendenzial­e impoverime­nto delle tutele e dell’assistenza, non sono andate oltre la tradiziona­le risposta frammentar­ia alle urgenze. Quanto alla possibilit­à che l’attuale emergenza sanitaria offra l’occasione di una reale riforma sistemica e migliorati­va, il lungo periodo così ben delineato da Giorgi e Pavan non lascia grandi margini di ottimismo.

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