Corriere della Sera - La Lettura
Occidentale, sei strano! E ti dico perché
Joseph Henrich è un antropologo americano che insegna biologia evolutiva. Il suo nuovo saggio è una ricognizione di una porzione molto particolare della popolazione mondiale. E dei meccanismi che l’hanno fatta diventare così particolare
iò che consideriamo normalità è in realtà stranezza estesa a paradigma. È quanto emerge da
WEIRD, il nuovo saggio di Joseph Henrich, in uscita il 17 febbraio per il Saggiatore, in cui l’antropologo americano mostra come, elevando il nostro sguardo ad abbracciare l’intera umanità, le persone delle nazioni occidentalizzate presentino caratteristiche psicologiche e comportamentali peculiari; in alcuni casi addirittura estreme.
Le radici di questa ricerca risalgono all’inizio degli anni Duemila quando, confrontandosi con alcuni colleghi antropologi culturali, Henrich si rende conto di una cosa: la stragrande maggioranza degli studi psicologici condotti dagli anni Sessanta a oggi si concentra su soggetti provenienti da Paesi occidentali e industrializzati, con un elevato grado di istruzione, tendenzialmente ricchi e democratici. Una rivelazione abbastanza intuitiva, considerando che è in questi Paesi che la maggior parte degli studi viene condotta. Di per sé potrebbe non essere problematica, non fosse che gli abitanti di Paesi come gli Usa, l’Australia e l’Italia presentano molti aspetti che si discostano nettamente dalla maggioranza delle persone che popolano il pianeta. In sintesi: tendiamo a essere meno leali nei confronti della nostra cerchia sociale, a fare processi alle intenzioni, a concentrarci sulle singole componenti di una questione piuttosto che sulla dimensione generale, e siamo ossessionati dalla realizzazione personale e dalla possibilità di sviluppare un’identità unica.
Questo significa che i soggetti al centro della maggior parte degli studi psicologici rappresentano in realtà una minoranza, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo (visto che queste nazioni contano al massimo il 12% della popolazione globale). Henrich e colleghi hanno dato a questa minoranza il nome WEIRD (acronimo di Western, Educated, Industrialized, Rich, Democratic; cioè occidentale, scolarizzata, industrializzata, ricca, democratica). Oggi il 90% degli studi psicologici e comportamentali sono ancora condotti su soggetti WEIRD. Ne abbiamo voluto parlare con Henrich, che ha dedicato gli ultimi 15 anni a esplorare le ragioni storiche e culturali per cui una fetta di popolazione mondiale abbia assunto connotati così «strani».
Il titolo originale del libro, «The WEIRDest people in the world», gioca sul significato inglese di «weird», suggerendo che gli occidentali siano le persone più strane al mondo. Cosa intendiamo però con «strane», e quanto è netta questa demarcazione?
«Il motivo per cui abbiamo coniato questo acronimo era rendere consapevoli i ricercatori in ambito psicologico ed economico che stavano facendo generalizzazioni sul comportamento umano a partire da una fetta molto sottile di umanità. Parliamo di persone tendenzialmente individualiste, inclini al pensiero analitico e a una prosocialità impersonale, soggetti che danno molta importanza alle intenzioni quando si tratta di esprimere giudizi morali. Nel mondo esiste una variazione molto ampia per quanto riguarda questi parametri, ma la stragrande maggioranza dei soggetti interpellati nelle ricerche si collocano a un’estremità precisa di questo spettro. Ciò non significa però che esista una dicotomia tra popolazioni occidentali e non-occidentali, c’è una variazione continua, a volte all’interno dello stesso Paese. Ho raccolto dati anche lungo tutta la penisola italiana, e anche da voi si riscontra una variazione».
È però innegabile che siamo talmente immersi nella cultura WEIRD che spesso troviamo inspiegabili comportamenti che si discostano dalla nostra norma, soprattutto quando si parla di come crescere i propri figli e come gestire i rapporti interpersonali.
«Esatto, e una delle cose che possono risultare sorprendenti è che ciò che in alcune nazioni occidentali viene considerato corruzione, altrove è una scelta moralmente corretta. Ad esempio è considerato lodevole assumere un cognato, o aiutare membri della famiglia a discapito di estranei. Da noi lo chiamiamo nepotismo, in altri posti è semplicemente il modo più giusto di comportarsi».
A volte crescere in un certo ambiente porta a sviluppare tare irreversibili. All’inizio del libro lei racconta come l’alfabetizzazione provochi cambiamenti nella morfologia del nostro cervello.
«Imparare a leggere porta a un ispessimento del corpo calloso e a una specializzazione dei circuiti neurali dell’emisfero sinistro, che a quanto pare interferisce con i processi legati al riconoscimento facciale. È perciò probabile che l’acquisizione di un linguaggio scritto porti a una riduzione di altre capacità. Per capire ciò è fondamentale superare la distinzione tra quello che è considerato biologico e culturale: crescendo immersi in un ambiente culturale i nostri cervelli hanno una plasticità tale da poter sviluppare certe abilità a discapito di altre, nel tentativo di adattarsi a ciò che l’ambiente richiede. Persone che vivono in società differenti hanno cervelli fisicamente differenti, questo anche se sono gemelli. Naturalmente manteniamo un grado di elasticità anche in età adulta, ma le competenze cognitive e comportamentali che acquisiamo nell’età dello sviluppo tendono a rimanere e influenzarci sempre».
Se guardiamo alla storia umana, questa cornice mentale ha avuto un ruolo nell’emergere, oltre che nell’imporsi, di un tipo di popolazione dai tratti così particolari.
«Sono convinto che un ruolo cruciale lo abbiano svolto le istituzioni che questo tipo di assetto mentale ha prodotto. Una
su tutte: la famiglia. Gli economisti non ci prestano troppa attenzione perché nelle società in cui vivono le famiglie sono troppo piccole per essere paragonate a istituzioni come la democrazia o l’economia di mercato; ma in molte società del passato le famiglie erano istituzioni molto più ampie e complesse: potevano essere al centro delle dinamiche politiche, le persone vivevano in clan o stirpi, spesso si sposavano tra cugini, i membri più importanti erano poligami e facevano molti figli, si andava così creando una rete di parentela molto articolata. Questo sembra fornire una spiegazione al fatto che in altre parti del mondo le persone ragionino in maniera diversa, perché le loro menti si adattano a un mondo intessuto di complesse reti parentali, in cui molte relazioni sono stabilite alla nascita. Un ambiente radicalmente diverso rispetto a una società composta da piccoli nuclei familiari monogami, dove sei costretto ad affrontare il mondo esterno, trovare da solo amici, compagni e partner lavorativi, e dunque sei indotto a metterti in mostra, cercando di enfatizzare quegli attributi che potrebbero indurre altri ad allacciare rapporti con te. Se oggi nel mondo occidentale abbiamo questo tipo di società, è in buona parte responsabilità della Chiesa cattolica, che introducendo una serie di proibizioni, imposizioni e tabù ha frammentato la complessa rete di parentela dell’Europa pre-cristiana».
Da un punto di vista biologico, questo cambio di passo ha sicuramente presentato dei vantaggi, se non altro perché, favorendo le interazioni tra persone di nuclei famigliari diversi, ha ampliato il pool genetico. È più interessante però capire che ruolo abbia avuto nel successo economico e politico delle nazioni che l’hanno adottato.
«L’idea è che questa trasformazione dei rapporti di parentela, inavvertitamente causata dalle politiche della Chiesa cattolica, abbia alterato il tipo di istituzioni che le persone formavano. Invece di concepire organizzazioni basate su complesse reti di parentela, cominciarono a fondare organizzazioni volontarie, come le gilde o le città statuarie che spuntarono in Nord Italia, Germania e Francia. Questo processo ha portato all’emergere di istituzioni come la democrazia, le corporazioni lavorative, le università, istituzioni volontarie che hanno poi ulteriormente trasformato la psicologia delle persone e posizionato parte dell’Europa occidentale su una traiettoria che non vediamo altrove. Una traiettoria che ha condotto a grandi cambiamenti come la Gloriosa rivoluzione in Inghilterra, i governi costituzionali, i sistemi capitalistici».
A proposito di sistemi economici: oggi la crisi climatica è un problema talmente sfaccettato e interconnesso che fatichiamo a comprenderne la portata. Sarebbe fondamentale sviluppare un approccio olistico, che consenta di affrontare il problema in modo strutturale. Le persone WEIRD, però, tendono a privilegiare un approccio analitico, concentrandosi su singoli problemi circoscritti senza spesso vedere come sono connessi in un quadro generale.
«Uno dei problemi riguarda la nostra ossessione per il progresso, e quale nozione abbiamo del progresso: l’idea che ci debba essere una crescita economica continua e indefinita è destinata a scontrarsi con limiti concreti, e già lo sta facendo. Il punto è che nelle popolazioni WEIRD c’è la tendenza a concentrarsi più sugli individui e meno sulla collettività, e una delle grandi sfide poste dalla crisi climatica è vedere l’intera specie come una collettività, focalizzarsi sull’adozione di decisioni a beneficio della specie, e questo è difficile perché se l’evoluzione culturale ci ha consentito di ampliare la portata della nostra cooperazione, è anche per via di un’accesa competizione tra gruppi. L’obiettivo dovrebbe essere riconcepire questa competizione come una sfida tra esseri umani e forze impersonali che minacciano il pianeta».
Le popolazioni indigene stanno riscuotendo un rinnovato interesse da parte di organizzazioni come le Nazioni Unite, proprio per via di uno sguardo tradizionalmente olistico, e di un assetto culturale che privilegia il mantenimento di un approccio armonico con l’ambiente. Un punto di fuga potrebbe essere questo: provare a liberarsi dei limiti del nostro sguardo sul mondo sovrapponendo lenti diverse a quelle con cui siamo abituati a inquadrarlo.
«Sappiamo che un gruppo si dimostra più capace nella risoluzione di problematiche se riesce a mettere insieme persone che ragionano in modo molto diverso. Come dicevamo, noi tendiamo a essere pensatori analitici, ma in realtà i gruppi che risolvono problemi in modo efficace e creativo contengono sia pensatori analitici che olistici, perciò sì, dobbiamo sfruttare l’intero spettro delle risorse cognitive globali. Rivolgersi alle conoscenze tradizionali è un approccio interessante, parliamo però di un cambiamento che può avvenire solo nell’arco di generazioni. Ma se cresciamo le nuove generazioni all’interno di istituzioni trasformate, avremo persone che vedranno e abiteranno il mondo in modo diverso. A differenza dell’evoluzione genetica, che richiede tempi lunghi, l’evoluzione culturale può procedere in fretta. Ed è vero che il posto in cui nasci incide molto su come pensi, ma tratteniamo comunque una certa flessibilità anche da adulti, quindi di progressi ne possiamo fare».