Corriere della Sera - La Lettura
L’inchiostro carnale di Franco Branciaroli
L’attore esordisce come scrittore con un romanzo di ossessioni amorose ed eccessi orgiastici. La prosa espressionista rimanda ai suoi sodali Carmelo Bene e Giovanni Testori, e all’antibuonismo di Philip Roth
Ci voleva un gran coraggio per scrivere un libro come La carne tonda (Aragno editore), ma a Franco Branciaroli, lo sappiamo, il coraggio non manca. Il protagonista della scena teatrale, amico di Carmelo Bene, sodale di Giovanni Testori, collaboratore di Luca Ronconi, e poi l’attore dei film porno-soft di Tinto Brass: Branciaroli ha un tale disincanto e una tale esperienza da potersi permettere di tutto. Basta sfogliare una sua biografia professionale per capire che gli è sempre piaciuto sfidare i limiti. E adesso, con questo suo primo romanzo, li supera con pagine di ineguagliabile bellezza, ma anche con un gusto eccessivo dell’eccesso (scusando la tautologia) che è sì la sua poetica, ma che avrebbe dovuto trovare una maggiore coerenza, magari grazie a un editing attento (la cui sola parola probabilmente a Branciaroli farà orrore).
Il romanzo è un lungo monologo a più voci: nel senso che l’io narrante ingloba e contiene in sé, cioè riporta, le voci degli altri in frequenti digressioni di storie che si succedono dentro la storia per allusioni e accostamenti a volte inspiegabili o pretestuosi, comportando qua e là qualche confusione, e più spesso involontari slittamenti nel punto di vista. Il protagonista — il cui nome, Angelo, viene rivelato verso la fine — è un ex impiegato import-export in pensione, abita a Milano in un modesto appartamento in zona Brera, benestante, possiede una vecchia Mercedes, un gruzzoletto in banca dimezzato dal (maledetto) passaggio all’euro, il dono di una bellezza non troppo sfiorita, coltiva poche passioni: l’aperitivo serale vodka-martini al Bar Basso nonostante l’ernia iatale e il sesso cercato e trovato nonostante l’età non più verde (ma c’è il Viagra che aiuta, «ostia della giovinezza», «risurrezione della carne», «ore in sella che neanche a vent’anni»).
Nel giro di poche pagine veniamo a sapere che, più che una passione, l’eros per Angelo è un’ossessione, restituita in un voyeurismo impudico, almeno pari al racconto dei propri visceri infiammati e incontinenti, al diffuso afflato scatologico, con i capricciosi meccanismi idraulici, le flatulenze, i borborigmi, gli sfinteri in azione. Ma altre ossessioni si aggiungono: la prima, che fa da Leitmotiv, è relativa al Mezzera, antico compagno di scuola, amico di bevute, personalità «prensile su tutto», attratta dal marcio della vita, quanto invece Angelo era portato a sdrucciolare, ad «accontentarsi di piacere alle donne». Fatto sta che il Mezzera è via via negli anni diventato un mistero dal passato (e dal presente) torbido, identità cangiante (fotografo, legionario, detective, vigile, avvocato?) su cui Angelo non cessa di interrogarsi, facendo scoperte sorprendenti: come quando, ritrovandosi in solitudine dentro l’ufficio dell’amico, si imbatte in una maestosa collezione di fotoromanzi clandestini.
Sarà il Mezzera, questa volta in veste di pseudo spia ipertecnologica, a dargli la dritta per mettere a nudo un altro intrigo: si tratta di avere le prove, a scopo ricattatorio, sui segreti amori della magnifica Federica, moglie di un vicino riccastro, detto il monegasco e possessore di una Porsche, dal quale Angelo è stato offeso pubblicamente per avergli ostruito il passaggio in cortile con la sua Mercedes. Che se ne farà delle fotografie compromettenti che gli verranno procurate da Mezzera? A questo punto il romanzo prende una svolta inattesa, che va dal comico-satirico (memorabile la parodia degli ambienti delle gallerie milanesi di arte contemporanea, letteralmente smerdati) alla rivelazione mistica evocata dalla materni
tà: «La donna gravida mi appare come l’unico, supremo e assoluto valore della vita, come la sua unica bellezza». Assisteremo in serie a clamorose scene di «fecitismo» (che è una branca speciale del feticismo), a una dettagliata messa religiosa orgiastica, al rocambolesco incidente occorso a un avvocato zoofilo incastrato nel suo alano, fino all’apoteosi della voluttà e della tenerezza culminante nella scopata con la donna incinta (e dunque con la creatura che la abita).
Si diceva del coraggio. Che è duplice o triplice. Da una parte perché affronta lo scandalo di una erotomania più che esplicita che sconfina volentieri nel perverso e nel ributtante, quasi a sfidare con la sola forza della parola lo stile dell’immenso repertorio di porno fruibile in rete: specie nella seconda parte del libro, dove la vicina Federica moltiplica i suoi amanti (l’adulterio dell’adulterio dell’adulterio...) proprio in coincidenza con i mesi della gestazione.
C’è poi un filo rosso che si potrebbe tranquillamente definire politically incorrect, dove si prendono a schiaffi con un certo divertimento cinico-sardonico i luoghi comuni della banalità buonista: sicuramente con echi di Philip Roth, forse anche di Michel Houellebecq, radicalmente in difesa della cultura europea-cristiana e visceralmente contro l’invasione araba: «I mussulmani prolificano e se poi tieni conto che in più ci sterminano, ci sgozzano come l’americano nel videogioco, per noi è l’estinzione (...) e dagli con gli aborti, con le pillole, coi culattoni, coi preservativi, gli unici che si riproducono sono i gatti». Dai fumi dell’alcol si levano le chiacchiere sugli imperi finanziari sino-americani, sulle strategie politiche est-europee, sull’inferiorità di certe razze, sulla necessità di ringiovanire e rinvigorire le decrepite popolazioni europee, sulla potenza fisico-sessuale del maschio africano con cui l’italiano non può competere, il brusio si confonde con l’emergere di immaginari esotici, giungle, savane, agilità feline che provengono da chissà dove: «C’è delle magie fantastiche che pendono dai rami: pitoni stanchi, folgori di scimmie in caroselli che sdondolano, sventagliate di scheggiaglie di soffi, stridolii di velocità, bombe di luce...».
Senza dimenticare le scudisciate alla Milano non più da bere ma da mangiare e da sfilare (tutta cibo, moda, design, coca e figa...): «Il prosciutto, aggrappiamoci tutti al prosciutto». Bellissime, a contrasto, le pagine che ricordano l’infanzia del figlio delle risaie, certe osterie, le case di ringhiera, tuguri con le stufe di ghisa, la determinazione dei nonni e delle nonne nel diventare moderatamente ricchi a costo di vivere mangiando i topi: «E lo diventarono: otto bar, due ristoranti, una sala da ballo e un cinema, tutto segnato sulla loro pelle. E io invece di attingere alla loro forza la schivavo, cercavo scuse, ero la loro zavorra...». Bellissime anche le pagine, riportate da Mezzera, in cui viene rievocata la totale, commovente, dedizione dell’amico Davide per la moglie afflitta da sclerosi multipla: la storia di un eroe buono reso folle e feroce dalla cattiveria del mondo. Nel grigiore e nell’efferatezza esibizionistica del vivere si aprono rari lampi di pietas, e su tanto vitalismo aleggia il pensiero della vecchiaia e della morte, un destino di disabilità, di demenza, di solitudine.
Infine, ma non infine, la furia céliniana, la provocazione bernhardiana, il lolitismo di Nabokov (si ricorderà l’Humbert Humbert di Branciaroli), il grottesco allucinato di Samuel Beckett, l’estremismo visionario di Testori — tutto il borborigmo di autori visibilmente (acusticamente) amati da Branciaroli si riconduce al coraggio dello stile, decisamente espressionista, portato alle asperità e alla mescolanza, più sensibile alla vocalità che alla logica geometrica (da cui l’irregolarità della punteggiatura), ovvero giustamente in linea con l’oltranza della storia e con il delirio ossessivo della voce che parla e delle voci che le parlano dentro.