Corriere della Sera - La Lettura
Il tempo è un bastardo ma tocca viverlo due volte
Il romanzo dell’inglese Deborah Levy si biforca a partire da un incidente sulle strisce pedonali di Abbey Road, rese celebri dai Beatles: ritroviamo il protagonista nel 1988 nella Berlino Est comunista e anche nel 2016, quando non ha più capelli in testa... Una costruzione ambiziosa che, tuttavia, si rivela coerente
Il saggio La geometria segreta dei pittori di Charles Bouleau ci porta a scoprire come alcuni quadri rimasti celebri nella storia dell’arte sembrerebbero costruiti sulla base di rapporti geometrici predeterminati. Ben nascosti dalle immagini che rapiscono i nostri occhi ingenui e sentimentali, ci sarebbero infatti dei punti che, se uniti e messi in evidenza, rivelerebbero come molte opere fondino la loro bellezza su elementi cardine razionali. Per cui, ad esempio, La nascita di Venere e La Primavera di Botticelli, se visti con questi raggi x, svelerebbero linee di fuga e di convergenza, di unione e di separazione delle figure che rispecchiano i criteri della divisione armonica dello spazio teorizzati da Leon Battista Alberti — il doppio diapente, il diatessaron e altre simili cosucce per iniziati.
Il romanzo di Deborah Levy, L’uomo che aveva visto tutto, va almeno apparentemente in direzione contraria. Qui la geometria è tutt’altro che segreta: è esposta. Diviso in due parti uguali per quantità, il romanzo si presenta come l’(ormai) classico film di David Lynch Mulholland Drive, con due racconti che prendono le mosse da uno stesso evento iniziale per poi divergere e tornare a incrociarsi continuamente. L’evento è un incidente. Saul Adler investito da una macchina sulle strisce pedonali di Abbey Road, quelle strisce pedonali. Nella prima parte Saul racconta del viaggio fatto nel 1988 a Berlino Est, per ragioni di studio e per seppellire le ceneri del padre, fervente comunista.
Nella seconda lo ritroviamo mentre sta riprendendo coscienza dall’incidente in un letto d’ospedale e dove, toccandosi la testa, si accorge con sommo orrore di non sentire al tatto i capelli. Adesso siamo nel 2016, i capelli sono caduti, e accanto a Saul c’è quello che lui crede essere lo spettro del padre, e che invece è il padre in carne e ossa. Inizia così un presente che non è la continuazione del passato, ma un racconto narrato due volte dove una delle due versioni deve essere per forza infedele. Ma quale? I personaggi che dalla prima parte si affacciano sulla seconda, e viceversa, sembrano sempre sul punto di chiarire l’enigma di fondo, per poi rilanciarlo sempre. Tanto che nel corso della lettura smettiamo di avvertire l’esistenza di una prima e di una seconda parte e ci ricreiamo nella mente un unico insieme di punti che vorremmo unire come bambini, punti che però non rivelano figure certe, perché bambini non siamo più, senza però essere nemmeno diventati Leon Battista Alberti.
Tutto questo ardore combinatorio non deve trarre in inganno. Levy infatti è maestra non solo ad architettare il palazzo, ma anche a riempirne le stanze con il contrappeso emotivo più forte che c’è, la vita nella sua bellezza e nei suoi disastri. Lo fa con tocchi veloci, improvvisi, da grande scrittrice, ben resa dalla traduzione di Gioia Guerzoni. Spunti che spesso sono legati agli oggetti. Il vinile di Abbey Road che Lena ha comprato illegalmente a Berlino Est e che lei tiene come un talismano nella speranza di fuggire un bel giorno in Inghilterra. O il filo di perle appartenuto alla madre che Saul porta sempre con sé al collo, perché le perle prendono il calore corporeo, diventando corpo a loro volta. Se il disco dei Beatles di Lena serve a inseguire la vita, le perle di Saul vogliono invece trattenerla. Qui c’è un rimando struggente — fatto ancora una volta in punta di piedi — all’Olocausto: «Forse mia nonna aveva dato a mia madre le perle quando era diventato chiaro che bisognava tentare di salvare almeno i bambini. Perché altrimenti una bambina di otto anni avrebbe dovuto avere al collo una collana di perle quando era arrivata in Inghilterra con una valigia soltanto? Dopo la sua morte, mio padre aveva dato le perle al figlio, non avendo una femmina».
Soltanto questo, nient’altro, ma a Levy basta per farci sentire anche questo dramma che, proprio come la collana, Saul si porta sempre addosso. Lui che «non avendo alcun rispetto di sé non può averne per gli altri», diviso in due come Tiresia e condannato a contemplare ogni volta la parte che in quel momento non è, con tutta la scia di abbandoni, tradimenti e di atti mancati.
Nel De doctrina Christiana Agostino scrive che il lettore non troverà nulla nei Vangeli che non possa essere riassunto dalla semplice affermazione «ama il prossimo tuo come te stesso». Eppure la provvidenza divina è talmente preveggente da sapere che differenti sono le menti degli uomini e che pertanto anche quel semplice comandamento va declinato in forme differenti.
Parabole, sentenze, racconti — il tutto per adattare il verbo divino, che è semplice, alla frastagliata complessità umana. Nel romanzo di Levy è un po’ questo che succede. Perché a volte non possiamo fare a meno della complessità per raccontare e raccontarci che il tempo è un bastardo o che, come scrive Charles Bukowski, mentre un suicida gli precipita dietro i vetri della finestra, siamo fatti di sangue e merda.