Corriere della Sera - La Lettura
Il grande teatro del Carnevale O anche viceversa
«Il Carnevale. Una parola che racchiude una miriade di ricordi e di esperienze che mi porto dietro da più di quarant’anni. Trovare un aggettivo per sintetizzare quegli anni magnifici è difficile, ma credo che la parola “irripetibile” sia già un buon punto di partenza». Maurizio Scaparro festeggia 90 anni — che compirà il 2 settembre — proprio a Venezia, dove il 18 febbraio si inaugura la mostra Il Carnevale squarcia la nebbia, organizzata dalla Biennale proprio per festeggiare il compleanno del grande regista che, in qualità di direttore della Biennale Teatro, segnò la rinascita del Carnevale.
Allestita nello spazio del Portego di Ca’ Giustinian, l’esposizione ripercorre attraverso i materiali dell’Archivio storico della Biennale i programmi dei Carnevali inventati dal regista: dal 1980 al 1982 e poi nel 2006.
Sottolinea il presidente della Biennale Roberto Cicutto: «Nessuno meglio di Scaparro ha interpretato il radicamento della nostra istituzione nella città e non solo. Venezia con lui è diventata la rampa di lancio per reinventare tradizioni che normalmente si riducono a mera celebrazione esteriore. I Carnevali di Maurizio hanno steso una ragnatela con altri luoghi del mondo: Napoli, Parigi, la Cina. Per questo la Biennale lo festeggia e lo iscrive di diritto nel patrimonio nella storia della Biennale racchiusa nell’Archivio storico e nella sua nuova veste di Centro internazionale della Ricerca sulle arti contemporanee».
Maestro Scaparro, il Carnevale del 1980 segnò il riappropriarsi della città dopo gli anni di piombo. Il teatro diventava catalizzatore del rilancio internazionale di questa manifestazione popolare e antica come il Carnevale veneziano?
«Fu un fuoco d’artificio di sorprese che ogni giorno rapiva migliaia di persone, arrivate nella laguna da ogni parte del mondo, per essere spettatori ma anche per diventare protagonisti di una festa che riportava in auge una tradizione centenaria che negli anni era stata ingiustamente abbandonata».
Quali sono i ricordi più forti che conserva?
«Sono tante le immagini impresse nella mia memoria, a cominciare dalla gigantesca ragnatela di acrilico, ideata da Donato Sartori, che trasformava Piazza San Marco in uno scenario fiabesco. E poi i mille Pulcinella che inondavano le calli nel segno di una fusione tra Napoli e Venezia. E poi ancora l’emblema di quegli anni è per me il Teatro del Mondo di Aldo Rossi che partì poi da Venezia per arrivare a Dubrovnik con una forza mistica capace di fagocitare un pubblico di qualsiasi etnia. In quegli anni provai a fare un esperimento: lavorare sul doppio binario della ricerca e della divulgazione, usare il Carnevale per buttare in piazza tutti gli ingredienti che nei secoli hanno fatto teatro e hanno fatto carnevale».
Se dovesse scegliere una parola per definire la sua carriera teatrale fino a oggi, quale potrebbe essere?
«Sceglierei la parola festa, per parlare di vita, di sogni, di speranze, di dignità umana, di amore, attraverso il teatro, che è forse una delle ultime agorà del nostro vivere civile. Nel mio lavoro la parola festa si è spesso intrecciata con la parola utopia. Il tratto di unione che ho cercato sempre di stabilire tra festa e utopia, stava, sta nel tentativo di comunicare, attraverso il teatro, le ansie, le speranze dei nostri giorni a più gente possibile, nel modo più umano possibile, ben sapendo le difficoltà crescenti del comunicare teatro in un mondo che tecnologicamente ha fatto passi enormi, e spesso affascinanti».
Come nasce la sua passione sin da ragazzo per il palcoscenico?
«Non ho un ricordo ben preciso del momento in cui scattò quella scintilla che mi ha portato a solcare i palchi più belli del mondo, ma una cosa mi è rimasta impressa quando, da piccolo, trovavo il tempo per travestirmi da chierichetto. Grazie alla passione di un sacerdote, don Severino, entravo a conoscenza del mondo dello spettacolo scoprendo il teatro della parrocchia. Posso dire che mossi i primi passi in un teatro proprio grazie alla frequentazione dell’oratorio gestito da quel sacerdote che porto sempre nel cuore».
Ma uno dei suoi primi lavori era la vendita delle macchine per scrivere.
«Questa domanda, stranamente, è collegata ai giorni nostri. Da giovane mi addentrai in un mestiere un po’ estraneo per me, anche se fortemente necessario per andare avanti. Ero rappresentante di un nota marca di macchine per scrivere americana e, di routine, dovevo proporre prodotti ad alcune grandi aziende. Una mattina mi recai presso una grande azienda con sede Roma e arrivato davanti al portone di un palazzo suonai al citofono che riportava il nome: Pfizer. Non avrei mai pensato che a distanza di più di sessant’anni, in piena emergenza sanitaria, quel nome sarebbe diventato così prepotentemente “presente” nella vita quotidiana di ognuno di noi. Strana la vita».
Da venditore di macchine per scrivere a critico teatrale del giornale «Avanti!», poi regista e direttore di teatri importanti. A Roma qual è stato quello più difficile da dirigere: il Teatro Stabile o l’Eliseo?
«Ho conosciuto molte realtà ma era ed è più difficile dirigere un teatro stabile, per la contaminazione con la vita politica e gli ostacoli burocratici che si nascondono dietro un simile onere e onore».
Innumerevoli le sue regie, tra queste è indimenticabile «La Venexiana» che ha realizzato in tre versioni con tre attrici diverse...
«Nella prima versione era protagonista Laura Adani,