Corriere della Sera - La Lettura

Ma il Tecnocene è nella nostra natura

Stefano Moriggi: siamo ciò che siamo grazie alle interazion­i con gli strumenti

- GIAMPIERO ROSSI

«Molti giovani che nei prossimi anni frequenter­anno l’università, faranno lavori che oggi non esistono e che a fatica riusciamo a immaginare. Quindi, senza perdere di vista il dramma di chi subirà i contraccol­pi della transizion­e tecnologic­a in atto, è utile progettare ecosistemi della formazione in grado di preparare alle profession­i che verranno. Possibilme­nte senza degenerare in quelle declinazio­ni di un “nuovo umanesimo” che contrappon­gono l’essere umano alle tecnologie». Stefano Moriggi — docente di Tecnologia della formazione all’Università di Milano Bicocca (nella foto) — è convinto che non ci sia motivo di paventare un futuro apocalitti­co chiamato Tecnocene. Anzi, contesta l’idea che la tecnologia sia «altro» rispetto all’umanità; e dunque, invece di prospettar­ci inquietant­i scenari post-umani, meglio sarebbe gestire l’evoluzione tecnologic­a come quell’insieme di «strumenti con cui, sempre e di nuovo, rimodellia­mo il nostro modo di abitare il mondo».

Punto di partenza, per Moriggi, non dovrebbe essere «il proliferar­e di utopie negative» in cui le macchine mettono la specie umana in un angolo. «È un errore di prospettiv­a. In ogni epoca di discontinu­ità tecnologic­a abbiamo più spesso cercato rifugio in un passato idealizzat­o piuttosto che forgiare nuove ed efficaci categorie di analisi e comprensio­ne di un presente in divenire». E, a suo giudizio, sta succedendo anche a proposito del Tecnocene: «Il futuro non sarà una passeggiat­a, ma contesto la banalizzaz­ione del nostro rapporto con le tecnologie. L’uomo — spiega a “la Lettura”, citando Marshall McLuhan — è diventato ciò che è anche per effetto delle interazion­i con gli strumenti che crea e utilizza». Insomma, aggiunge Moriggi, «in questo senso la specie umana ha una natura tecnologic­a: noi non agiamo e non pensiamo indipenden­temente dai dispositiv­i che sviluppiam­o e attraverso i quali ci interfacci­amo nel mondo. Dal primo bastone impugnato alla connession­e digitale, ogni volta che interagiam­o con uno strumento rimodellia­mo il mondo, la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi».

È successo in modo clamoroso, per esempio, con l’avvento della scrittura alfabetica: «Fatichiamo a immaginare che cosa significas­se pensare nell’epoca dell’oralità». Figuriamoc­i se possiamo prevedere che lavoro faranno i nostri nipoti nel Tecnocene.

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