Corriere della Sera - La Lettura
Che cosa resta dell’amore
Il conflitto che devasta l’Ucraina e minaccia l’Europa ha reso all’improvviso logori la lingua (fino a ieri si parlava di guerra al Covid) e i sentimenti. Abbiamo chiesto a Severino Dianich, teologo, e ad Antonio Prete, saggista esperto di Leopardi...
Make love, not war — fate l’amore, non fate la guerra — lo slogan pacifista che negli anni Sessanta esortava alla diserzione gli americani coinvolti nella disastrosa guerra del Vietnam, aveva avuto, 2.500 anni prima, un precedente del tutto opposto nella forma, ma identico negli obiettivi: Lisistrata, protagonista dell’omonima commedia di Aristofane del 411 a.C., per costringere Ateniesi e Spartani logorati da una guerra ventennale a fare la pace, aveva invitato le donne greche a proclamare uno «sciopero del sesso». Inutile dire che (almeno nel «mondo alla rovescia» della commedia greca) lo sciopero aveva avuto successo: provati dalla continua frustrazione del desiderio sessuale, alla fine della commedia gli uomini si erano arresi alla volontà delle donne, stipulando una tregua.
Per provare a capire il tempo che stiamo vivendo e anche per cogliere alcune costanti della riflessione sulla guerra, soprattutto dal punto di vista femminile, proprio perché la guerra non ha mai o quasi mai il volto di una donna, può essere oggi molto utile leggere La donna che sconfigge la guerra, piacevolissima «autobiografia» di Lisistrata affidata alla brillante scrittura di Simone Beta (Carocci, 2022). Parole efficaci anche per l’ironia che le sostiene, per l’orizzonte che sanno dischiuderci nonostante (o proprio per) la distanza temporale su cui quel testo si accampa. Succede poi, d’altra parte, che certe parole ci facciano sperimentare la forza — che da esse sprigiona — di farsi realtà. Di guerra si è parlato molto, troppo, e fino a non molto tempo fa non sempre a proposito. La parola guerra ha dominato il racconto infinito della pandemia, si è fatta metafora che ha assediato il nostro immaginario. Combattere, aggredire, sconfiggere, sono stati verbi perfino abusati per fotografare l’invasione di questo male che ancora non batte del tutto la ritirata. Sono importanti, le parole: perché non sono mai neutre, diventano carne e sangue, si scavano trincee nella realtà. Potenza della parola, della sua capacità di creare. Così il racconto della pandemia, che vedeva come nemico un virus sconosciuto, ha lasciato il posto al racconto di una guerra vera, in cui la metafora non c’è più. La guerra della Russia contro l’Ucraina è qui, davanti a noi, morte che vive ogni giorno nei volti di chi colpisce ed è colpito, nel pianto di chi fugge e di chi resta, nei cadaveri straziati. A Kiev, a Mariupol, a Odessa...
Make love, not war — certo — ma che cosa rimane dell’amore in questo scenario di distruzione e morte? C’è ancora spazio per parlare d’amore in tempo di guerra? Che cos’è oggi l’amore? Che amore è l’amore di cui ha parlato Putin il 18 marzo allo stadio Lužniki di Mosca? Per discutere di questo «la Lettura» ha convocato Antonio Prete, saggista e narratore, frequentatore di Leopardi e Baudelaire, che ha appena pubblicato Carte d’amore, un titolo non neutrale (Bollati Boringhieri), e Severino Dianich, teologo e biblista che ha dedicato la sua ricerca al ruolo della Chiesa e nella Chiesa, alle relazioni di comunione e fraternità.
ANTONIO PRETE — Dell’amore si può dire solo per approssimazioni e per frammenti. Roland Barthes lo rilevava già nel titolo dei suoi Frammenti di un discorso amoroso. Io nel libro cerco di esplorare le figure dell’amore: l’apparizione, il turbamento, la fascinazione, il segreto, la confidenza, la gelosia, la seduzione... Per ogni figura poeti e narratori ci rivelano interni e riverberi. Pensiamo alla tenerezza, a questa lingua mite della passione, che accoglie senza impeto e senza riserve, al suo rapporto con la delicatezza.
SEVERINO DIANICH — Queste osservazioni mi riportano alla memoria il Dio del profeta biblico, che recrimina contro gli uomini: «Io avevo chiamato e nessuno ha