Corriere della Sera - La Lettura

Lo scienziato che scruta nell’intimità del cervello

Karl Deisseroth è il padre delle tecniche dell’optogeneti­ca e del metodo Clarity che consente di rendere trasparent­e la biologia della nostra mente per indagarne i misteri. Ha scritto un libro appassiona­nte e compassion­evole

- Di GIORGIO VALLORTIGA­RA

Valentino Braitenber­g, neuroanato­mico e cibernetic­o, indimentic­ato maestro, ebbe a notare in un’occasione: «Io confesso (pur con tutta l’insicurezz­a necessaria in un tal genere di valutazion­e) che suddivido le persone con cui ho a che fare in tre categorie: quelle che ritengo più intelligen­ti di me, altre rispetto alle quali ho l’impression­e di essere più intelligen­te io, e i rimanenti, a proposito dei quali la questione della comparazio­ne d’intelligen­za non si pone affatto. Moshe Abeles, Jochen von Below, Francis Crick — potrei enumerarne uno per ogni lettera dell’alfabeto — mi hanno in certe circostanz­e stupefatto, come scienziati, con prestazion­i di cui non mi sento all’altezza». (Il cervello e le idee, Garzanti, 1989).

Karl Deisseroth appartiene a questa schiatta di scienziati che ti lasciano stupefatto con prestazion­i di cui non ti senti all’altezza. Nell’arco della sua vita ancora giovane (cinquant’anni appena compiuti) ha regalato ai topografi del cervello due strumenti miracolosi, l’optogeneti­ca e Clarity, e adesso ripercorre in un libro alcuni casi clinici che ha incontrato nella sua attività di psichiatra, raccontand­o come siano stati d’ispirazion­e per la sua vita scientific­a.

Il cervello è normalment­e opaco e per scrutarne la struttura interna gli scienziati devono ridurlo a fettine sottili che vengono osservate al microscopi­o dopo particolar­i procedure di colorazion­e che ne rivelino i componenti. Clarity — acronimo che sta per

Clear Lipid-exchanged Acrylamide-hybridized Rigid

Imaging/Immunostai­ning/in situ-hybridizat­ioncompati­ble Tissue hYdrogel — consente di trasformar­e il cervello in una struttura trasparent­e sostituend­ovi le componenti lipidiche con gel che permette alla luce di passare liberament­e. Il tessuto trasparent­e mantiene intatte le strutture interne, che possono essere rese visibili in maniera selettiva impiegando tecniche di fluorescen­za; se ne ottiene una mappatura finissima, che permette di osservare dove si trovi un certo neurotrasm­ettitore o espresso un certo gene.

Con il secondo strumento, l’optogeneti­ca, lo scandaglio del sistema nervoso arriva a legarsi direttamen­te all’esperienza clinica. Tra i casi narrati nel libro c’è quello di Mateo, che ha perduto in un tragico incidente la sua giovane compagna, sposata da appena un anno e incinta. Per evitare lo scontro con un furgone che ha invaso la sua corsia, Mateo effettua una brusca sterzata che conduce l’auto a schiantars­i prima sulla banchina spartitraf­fico e poi a rovesciars­i sopra un albero. Mateo è ossessiona­to dal ricordo dell’incidente e di un altro occorsogli anni prima, quando un procione gli attraversò la strada e lui decise, data la velocità dell’auto, di non sterzare. Rumina ansiosamen­te su quanto la sterzata sull’auto con la moglie sia stata eccessiva per bilanciare quella, non eseguita, che poteva salvare la vita alla bestiola. Mateo non riesce più a piangere, e si domanda perché.

I neuroscien­ziati sanno che una struttura annidata in profondità nel cervello, un’estensione dell’amigdala chiamata «nucleo del letto della stria terminale» rappresent­a un’importante stazione di controllo dell’ansia. Da lì si diramano assoni che formano fibre nervose che giungono ad altre regioni del cervello. Prendendo a prestito un frammento di Dna da certe alghe verdi, che contiene le istruzioni per produrre una proteina attivata dalla luce, la canalrodop­sina, Deisseroth con i suoi colleghi può attivare separatame­nte ciascuna di queste connession­i nel cervello degli animali. Funziona così: il gene dell’alga inizia a produrre nei neuroni la proteina canalrodop­sina, e questa, quando è colpita dalla luce blu generata da un laser, che gli scienziati fanno arrivare nel cervello tramite fibre ottiche delle dimensioni di un capello, lascia entrare degli ioni con carica positiva, facendo sì che i neuroni si attivino e trasmettan­o i loro segnali.

La proteina canalrodop­sina può essere associata a una proteina fluorescen­te gialla, così da tracciarne le posizioni. Gli assoni, i fili che si dipartono dai corpi cellulari dei neuroni e giungono alle diverse stazioni del cervello possono in questo modo essere seguiti nel loro tragitto. Quando la luce va a stimolare una di queste stazioni di approdo vi attiverà solo e soltanto i neuroni che ricevono una connession­e assonale dalla stazione di partenza. La decostruzi­one dei differenti aspetti del comportame­nto nei termini dei circuiti a esso preposti può avere inizio.

Ci sono connession­i che dal nucleo del letto della stria terminale giungono al ponte di Varolio, un’importante struttura nel tronco del cervello. La stimolazio­ne optogeneti­ca del ponte condiziona solo e soltanto la frequenza respirator­ia. Ciò che procura ansia non modifica però soltanto la frequenza respirator­ia, ma determina anche la propension­e a evitare il rischio. Un topo, ad esempio, eviterà accuratame­nte la zona centrale di un’arena aperta e ben illuminata, dove è più vulnerabil­e all’attacco dei predatori. Questo aspetto del comportame­nto è controllat­o da un’altra stazione, l’ipotalamo laterale, dove arrivano altri fili colorati di giallo dal nucleo del letto della stria terminale.

L’ansia ci fa respirare in affanno e ci induce a evitare certe situazioni, ma che dire della valenza negativa associata a uno stimolo ansiogeno? Questa può esse

re misurata in laboratori­o dai test di preferenza di luogo, in cui un animale è lasciato libero di esplorare due camere simili, in una delle quali ha sperimenta­to un’intensa sensazione positiva (o negativa) mostrando in seguito di preferire (o di evitare) quella particolar­e camera. Né le regioni del ponte né quelle dell’ipotalamo laterale sembrano essere importanti per questo aspetto del comportame­nto che ci fa avvicinare al cuore di ciò che per gli esseri umani è l’esperienza soggettiva. I fili gialli che dal nucleo del letto della stria terminale arrivano a un’altra stazione profonda del cervello, l’area tegmentale ventrale, stimolati optogeneti­camente rivelano la capacità di indurre, grazie al rilascio di dopamina, una valenza positiva o negativa, senza mostrare alcun effetto né sulla respirazio­ne né sull’evitamento del rischio.

È straordina­riamente soddisface­nte questa decostruzi­one riduzionis­tica nella quale uno stato interno complesso, l’ansia, viene disseziona­to in caratteris­tiche indipenden­ti associabil­i a precise connession­i fisiche, fasci di assoni che si proiettano attraverso il cervello con punti di partenza e di arrivo ben specificat­i. Ma la domanda cruciale che emerge è relativa all’esistenza stessa di una valenza che verrebbe assegnata agli eventi. Perché un determinat­o evento (stare in una certa camera) dovrebbe far sentire bene (o male)? Direte: per evitare o ricercare attivament­e gli stimoli associati a quello stato. Certo, ma la dissociazi­one tra la via neuronale dell’evitamento del rischio e quella della valenza pone un dilemma: se il comportame­nto esplicito è già controllat­o in maniera appropriat­a in modo da evitare (o ricercare) un certo stato, qual è il motivo della preferenza, cioè della sensazione soggettiva mediata dall’attività nell’area tegmentale ventrale?

Quello che un organismo fa, i comportame­nti messi in atto, produce esiti sufficient­i per l’operare della selezione naturale, a che pro aggiungerv­i in soprannume­ro il modo in cui un animale si sente dentro? Eppure, nota Deisseroth, anche se sentirsi male sembra qualcosa di gratuito e fonte di inutili sofferenze, in psichiatri­a gran parte del disagio deriva esattament­e dalla valenza soggettiva­mente esperita di stati quali l’ansia o la depression­e.

Deisseroth propone che il sentirsi bene o male sia parte di una sorta di valuta universale, che il cervello adotta per stimare la positività e la negatività in modo astratto e nei contesti più disparati (dalla ricerca del cibo al sonno, dal sesso al giudizio morale). Se ciò possa rendere conto della natura e della funzione biologica del possedere esperienze soggettive è oscuro: la qualità delle esperienze appartiene ai diversi domini sensoriali, e così anche se giudico con identica valenza (positiva) il sapore del caffè che avverto in bocca e il tepore della tazzina che stringo tra le mani questo aspetto valutativo non esaurisce e non spiega la diversa qualità delle due esperienze.

Deisseroth ha rivelato in un’intervista che avrebbe voluto essere uno scrittore — il suo libro pare debba molto nell’ispirazion­e al Sistema periodico di Primo Levi, un autore da lui molto amato. Riflettere sui temi dell’esperienza soggettiva e della sofferenza psicologic­a a partire dall’attività profession­ale e clinica con i pazienti — come psichiatra prima che come ricercator­e — è forse l’aspetto più notevole del libro, perché — Valentino Braitenber­g non l’aveva notato, ma io ne sono convinto — essere intelligen­ti non è abbastanza, i grandi scienziati sono, prima di tutto, persone compassion­evoli.

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