Corriere della Sera - La Lettura
Un suicidio per procura: anche Mishima si diverte
Giappone In Italia per la prima volta un romanzo uscito a puntate nel 1968. Un nichilista riluttante in un mix di thriller, eros, spionaggio e umorismo nero
«Lui si sentiva già un uomo morto. Era ormai lontano dalla morale, dai sentimenti, da tutto». Parole che potrebbero valere per diversi personaggi della copiosa produzione letteraria di Yukio Mishima (o meglio, Mishima Yukio, secondo la dizione tradizionale). E invece Hanio non è come gli altri: non un esteta consumato da un’inestinguibile, inappagata aspirazione alla bellezza, non un samurai fuori stagione, assediato da un mondo volgare, pronto a immolarsi per l’imperatore, non lo anima alcuno slancio metafisico. Il destino che Mishima ha pensato per lui danza su altri orizzonti. Hanio è il protagonista di Vita in vendita, romanzo eccentrico nella costellazione narrativa di Mishima, autore che abbatté il diaframma tra vita e arte arrivando a fondare una sua milizia patriottica e a tentare, il 25 novembre 1970, una sortita nel quartier generale delle Forze di autodifesa (il non-esercito consentito dalla Costituzione postbellica che vieta al Giappone di dotarsi di forze armate propriamente dette) finita con un fiasco e con il seppuku, il suicidio rituale dello stesso scrittore quarantacinquenne.
Vita in vendita non era mai stato pubblicato in Italia. Come spiega nella postfazione Giorgio Amitrano che lo ha tradotto per Feltrinelli, appartiene a quella produzione commerciale tipica di molti grandi della letteratura giapponese novecentesca, che accanto ai titoli «alti» non disdegnavano i vantaggi di lavori meno impegnativi. Come un feuilleton d’altri tempi, Vita in vendita apparve a puntate nel 1968 fra le ragazze poco vestite di «Playboy Weekly», uscì in volume nel dicembre di quell’anno, venne rapidamente dimenticato né lo rilanciò un’edizione nel 1998. Soltanto nel 2015, per motivi piuttosto misteriosi, il libro s’impose come un caso editoriale e, per lo stupore di tanti, si è assestato tra i longseller del mercato editoriale nipponico.
L’eccentricità del romanzo sta soprattutto nel suo impasto postmoderno, in anticipo sui gusti, di elementi eterogenei: thriller, horror, erotismo, tocchi di umorismo (nero), spionaggio. Lo sviluppo risponde alle esigenze dell’intrattenimento: una sequenza lineare di avventure e la scelta di chiudere spesso i capitoli con un finale sospeso, cliffhanger. Hanio, pubblicitario di successo, di punto in bianco decide di suicidarsi. Non sa neppure lui perché, «ma a voler trovare una spiegazione a ogni costo, l’unica possibile è che avesse tentato il suicidio proprio perché non aveva nessuna ragione di farlo». Stabilisce allora di mettere, come da titolo, la propria Vita in vendita, con un cartello sulla porta di casa. «Vivere non aveva più senso, e allora la sua mente era stata invasa dal pensiero della morte», e tanto basta.
Un suicidio per procura. Risolversi a non vivere più, delegando ad altri l’incombenza della propria dipartita, rasserena Hanio: «Sentire che la morte era a un passo da lui fu come vedere uno spazio spalancato davanti a sé, uno spazio che già aveva visitato e che quindi non gli incuteva alcun timore». Ed è con questo spirito che il protagonista affronta via via le fatali incombenze che gli vengono proposte, a cominciare dalla richiesta di partecipare — come vittima — all’assassinio di una giovane moglie infedele. Segue un’avventura che parte tra entomologia e bibliofilia e culmina con una scena da gangster movie. L’episodio successivo si addentra nelle delizie di un caso di vampirismo contemporaneo, con atmosfere alla Edogawa Ranpo (maestro modernista di storie gotiche e poliziesche); quindi ecco un intrigo spionistico che coinvolge le ambasciate di un Paese A e un Paese B (qui c’è aria di Guerra fredda, ma tutto viene depurato da dettagli troppo realistici e l’effetto risulta quasi astratto); infine piomba nell’abbraccio di una stravagante zitella, non digiuna di sostanze psicotrope come l’Lsd (siamo pur sempre nel 1968), gelosissima e insieme ferocemente lucida: «Tu sei stanco di morire».
Il finale ricongiunge i fili della trama con l’inizio, allaccia gli episodi intermedi che sembravano slegati l’uno dall’altro. È come Hanio arriva in fondo a renderlo un personaggio tutt’altro che appiattito sui meccanismi del mero intrattenimento. Se da nichilista riluttante che ammoniva i propri interlocutori spiegando loro che «la
vita è priva di significato e l’essere umano non è altro che un pupazzo», a poco a poco — braccato da quelli che teme essere sicari — perde la protettiva indifferenza nei confronti dell’esistenza.
È un dramma, ma un dramma giocoso. Con un ghigno, Mishima suggerisce una fenomenologia del nichilismo contemporaneo. Il protagonista scivola sempre più lontano dalle sue intenzioni: «Dire che la vita è priva di significato è facile, ma Hanio dovette constatare ancora una volta che vivere in questa assenza di significato richiedeva molta forza ed energia». Di più: «Suicidio... A questo pensiero si sentì assalire, senza sapere perché, da una sorta di nausea spirituale. Forse perché non gli era riuscito una volta, il suicidio gli appariva adesso, da ogni punto di vista, come qualcosa di molto fastidioso». Sullo sfondo, il «fragore delle onde della metropoli di notte».
Hanio, così, ritrova insieme sia l’istinto di sopravvivenza («desiderava vivere, non c’era più dubbio») sia «la sensazione di angoscia che comportava il fatto di vivere» e che «aveva dimenticato per tanto tempo». Il nichilismo si ritrasforma in angoscia esistenziale. Eppure il protagonista — sottolinea ancora Amitrano — richiama Mizoguchi, l’io narrante de Il padiglione d’oro, che pur deciso a uccidersi e a lanciarsi nel tempio in fiamme, alla fine preferisce vivere.
Il fatto che siano gli accadimenti della trama, così vistosamente irrealistici, a spingere Hanio verso l’«attaccamento alla vita», sembra suggerire un livello di lettura ulteriore, persino metaletterario: è l’artificio, quindi la letteratura, a innescare il desiderio di restare nel mondo, lo slancio creativo (qui affidato a una specie di parodia della narrativa d’evasione) restituisce l’uomo alla sua sfera materiale. Ridotta ai minini termini torna forse l’equazione secondo cui l’arte è vita e la vita è arte. Si scorgono lampi del Mishima-Mishima, il Mishima più noto: l’assoluto scardina l’opacità e la bruttezza del mondo, se anche Hanio comprende che «oltre questo soffitto c’è il cielo stellato, avvolto nello smog» e, «guardando il soffitto macchiato di umidità», percepisce «una scenografia divina». Quello che può apparire come un Mishima lontano dalla propria estetica si ripresenta sotto mentite spoglie. Non sembra, ma è lui: proprio lui.