Corriere della Sera - La Lettura
In coppia a Berlino scoprendosi alien(at)i
Nove anni dopo il precedente, il nuovo lavoro di Vincenzo Latronico è un riuscito esercizio di stile che, concepito come un omaggio a «Le cose» di Georges Perec, segue la deriva esistenzial-professionale di due giovani disancorati dal mondo
Appariscente o celata, è dalla letteratura che nasce la letteratura. Che è poi tale solo in forza della capacità dell’autore di elaborare una cifra propria. Che è quanto è riuscito a Vincenzo Latronico in Le perfezioni, romanzo a nove anni di distanza dal precedente, frutto di un lavorio praticato nell’arte del levare. Il testo nasce come «omaggio a Le cose di Georges Perec»; assumendolo però per ridonarlo con vita propria, a partire dalle pagine iniziali con le immagini d’una stanza, ai ventenni Jérôme e Sylvie a Parigi, dalla quale a un certo punto fuggono in Tunisia; a una struttura narrativa impostata sui tempi verbali; alla assenza di dialoghi; alla dimensione tipografica stessa. Di qui la scommessa di Latronico, passando da «una storia degli anni Sessanta» agli anni Dieci del Duemila (20112019), con protagonisti due giovani «sopra i ventitré anni ma sotto i trenta», Tom e Anna, cresciuti insieme con la passione dei computer e un internet che stava entrando insieme a loro «nell’età adulta», ma che — avvertita la mancanza della «libertà di essere sé stessi, cioè di inventarsi, cioè di essere diversi da sé stessi» — decidono di trasferirsi, pur «senza conoscerne la lingua», a Berlino traducendo quella passione in «una professione fluida che esercitavano dove volevano, quando volevano, e che dipendeva in larga misura dai capricci dei clienti, dai contatti sui social», come «web developer, graphic designer, online brand strategist».
Berlino è tanto accogliente da tradursi nel corso degli anni in «narcotica», anche perché, a parte la scelta della città, quello di Latronico sembra proprio un racconto di «non scelte». Un racconto calato su una generazione «venuta dopo» gli eventi di fine secolo, sui quali manco si pone il problema di interrogarsi. Perché — per dirla con una famiglia lemmatica che è sostanza del romanzo (ben 59 occorrenze) — quelle «immagini» che producono e consumano finiscono per assorbirli, tanto che non è più l’immagine a collimare con la realtà, ma il contrario, piegando la loro vita all’immagine che sognano (e lo stesso romanzo, che narrativamente vira infine nel segno d’un destino che decide per loro, si chiude su immagini plastificate). Con quanto ne viene a una coscienza fragile, incapace persino d’interrogarsi su una geografia storica come la berlinese; dove l’iniziativa individuale significa consumo, gli interessi culturali pochi e vaghi, una politica affrontata lateralmente nel segno di donazioni, mail di partecipazione, sporadici impegni in una mensa; dove non esistono amicizie ma solo contatti. Ritrovandosi anni dopo, quasi trentenni, sempre uguali, e senza la coscienza di quanto accaduto loro intorno. Un vivere, il loro, in una «bolla» da routine perfezionata che ha fatto perdere il senso del tempo e della realtà, ritrovandosi d’un tratto a vivere in una Berlino altra e diversa, senza «saper dire cos’era cambiato». E dove l’espressione «non avrebbero saputo...» si fa autentico Leitmotiv che va ben oltre il fenomeno della gentrificazione. Tanto da scoprirsi impacciati col nuovo. E da avvertire la mancanza di «qualcosa che lì avevano dato per scontato», traducendo quel senso di precarietà «in un perenne entusiasmo nervoso».
Di qui la volontà di reimpossessarsi delle proprie vite; sentendosi però impreparati, anche perché non hanno mai saputo o dovuto scegliere, tanto da rinfacciarsi persino una meta vacanziera sbagliata in Sicilia. Ciò che ne viene sul piano narrativo è un singolare, avvincente romanzo-saggio su una generazione in cui tutti fanno le stesse cose con variazioni minime di uno schema ben noto: perché Tom e Anna sono uguali a tanti altri che giungono a Berlino da ogni dove d’Europa né è diversa la Lisbona dove la coppia cerca linfa nuova. E su questi aspetti Latronico lavora di stile. Analoga a Perec la struttura della frase, ma differente la prospettiva grazie ai tempi verbali: imperfetto con intarsi di passato remoto (e futuro nell’Epilogo) in Perec; una scansione capitolare rinviante ai contenuti (Presente, Imperfetto, Remoto, Futuro)
(Imperfetto (Remoto),
in Latronico: dalla crescente imperfezione dei protagonisti )al lavoro da remoto dove però quell’imperfetto tende comunque a insinuarsi. In dimensione però differente da Perec. Al cui «imperfetto flaubertiano» Latronico preferisce l’«imperfetto verghiano», in linea con l’andamento da romanzo-saggio. Imperfetti «voluti per rendere completa l’illusione della realtà dell’opera d’arte, della non compartecipazione, direi dell’autore».
Dislocazione
Nella capitale tedesca per «una professione fluida che esercitavano dove volevano, quando volevano»