Corriere della Sera - La Lettura

Raccontare gli antenati che non sono stati

Ripercorre le proprie radici senza il conforto della metafisica

- Di DANIELE PICCINI

Che cosa resta delle storie, delle vite, a partire dalla propria, ancora in corsa: è quello che si chiede Mario Santagosti­ni (1951), poeta milanese dalla misura espressiva rastremata e puntuale, eppure a suo modo ariosa. Il nuovo suo libro è un album che allinea possibili responsi a questa domanda, la quale sorge dall’interno di una genealogia, da dentro le ramificazi­oni della pianta-famiglia. E le risposte immaginate, ne Il libro della lettera arrivata, e mai partita (Garzanti), formano un intrico di paradossi, di inganni ottici.

Siccome Santagosti­ni non crede in alcun aldilà, in nessuna resurrezio­ne o salvezza personale, costruisce un teatro di parole, di ipotesi, di giaculator­ie terrestri per addomestic­are l’impossibil­ità di una panacea metafisica. Ne deriva un polverio di voci, di fiati, di cose, alla confluenza degli affluenti del tutto e del nulla. La landa desolata, inquisita fin dalle fondamenta, è quella della memoria, che non si arrende e sogna un suo proprio altrove, mai esistito, ma pensabile e perciò struggente e cinereo. Ascoltiamo il tono di voce di questo poeta giunto, dopo raccolte alte e a poco a poco più decise nello spingere l’inchiesta verso esiti estremi, alla sua maturità: «Non riesco a credere/ che qualcuno è mancato,/ non sono mai stato capace./ Non fino in fondo, almeno. E mi chiedo/ come si è perduto./ Nei momenti migliori, come farà a tornare./ E chi, o cosa lo guida,/ e fino a dove [...]» (Finestra. Su chi c’è e su chi manca). E in una delle condensate prose che punteggian­o il libro: «Certo, non sarà mai tutto vero, di queste storie. E nemmeno del padre di mio padre. E, ancora, c’è un motivo. A volte, arrivo a credere che l’unica strada per ricordare i morti senza metterli in croce nella mia poca memoria, sta nel raccontare anche cosa non hanno fatto, chi non sono mai stati».

Il libro, è chiaro, parla con tono perentorio eppure umbratile della dissolvenz­a, della nebbia in cui, dal nostro osservator­io, essere e non essere stati sembrano a un certo punto incontrars­i. Ed è anche una forma di decostruzi­one della realtà, di ciascuna vicenda (compresa quella sacra), come se nulla di certo fosse più predicabil­e, ma solo una nebulosa di possibilit­à, di abbozzi, di irrealizza­te varianti. Ed è in questa selva di fantasie di prossimità con l’altro, con il nostro passato e con la nostra stessa storia ormai divenutaci straniera, che il poeta sembra cercare vie di fuga rimaste interrate, uscite secondarie. Domina un’opzione estetica improntata alla sottrazion­e («Forme di bellezza semplifica­ta»), fino a giungere a un osso, a un resto indistrutt­ibile, a una reliquia dal senso incerto.

Anche i poeti amati (ad esempio Montale, Sereni, Fortini, Pagliarani, Mario Benedetti) sono citati puntualmen­te (come lo è la topografia milanese) e servono ad avvicinars­i a quel

quid autentico e sfuggente, che rimane.

Infine, è l’idea di un’ora tarda che si fa strada («e tutto sembra sera, solo tardissima sera»), di un essere venuti dopo, in ritardo, di non sapere se e dove ci si incontrerà di nuovo: chi e che cosa siamo stati o diventerem­o.

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