Corriere della Sera - La Lettura
Raccontare gli antenati che non sono stati
Ripercorre le proprie radici senza il conforto della metafisica
Che cosa resta delle storie, delle vite, a partire dalla propria, ancora in corsa: è quello che si chiede Mario Santagostini (1951), poeta milanese dalla misura espressiva rastremata e puntuale, eppure a suo modo ariosa. Il nuovo suo libro è un album che allinea possibili responsi a questa domanda, la quale sorge dall’interno di una genealogia, da dentro le ramificazioni della pianta-famiglia. E le risposte immaginate, ne Il libro della lettera arrivata, e mai partita (Garzanti), formano un intrico di paradossi, di inganni ottici.
Siccome Santagostini non crede in alcun aldilà, in nessuna resurrezione o salvezza personale, costruisce un teatro di parole, di ipotesi, di giaculatorie terrestri per addomesticare l’impossibilità di una panacea metafisica. Ne deriva un polverio di voci, di fiati, di cose, alla confluenza degli affluenti del tutto e del nulla. La landa desolata, inquisita fin dalle fondamenta, è quella della memoria, che non si arrende e sogna un suo proprio altrove, mai esistito, ma pensabile e perciò struggente e cinereo. Ascoltiamo il tono di voce di questo poeta giunto, dopo raccolte alte e a poco a poco più decise nello spingere l’inchiesta verso esiti estremi, alla sua maturità: «Non riesco a credere/ che qualcuno è mancato,/ non sono mai stato capace./ Non fino in fondo, almeno. E mi chiedo/ come si è perduto./ Nei momenti migliori, come farà a tornare./ E chi, o cosa lo guida,/ e fino a dove [...]» (Finestra. Su chi c’è e su chi manca). E in una delle condensate prose che punteggiano il libro: «Certo, non sarà mai tutto vero, di queste storie. E nemmeno del padre di mio padre. E, ancora, c’è un motivo. A volte, arrivo a credere che l’unica strada per ricordare i morti senza metterli in croce nella mia poca memoria, sta nel raccontare anche cosa non hanno fatto, chi non sono mai stati».
Il libro, è chiaro, parla con tono perentorio eppure umbratile della dissolvenza, della nebbia in cui, dal nostro osservatorio, essere e non essere stati sembrano a un certo punto incontrarsi. Ed è anche una forma di decostruzione della realtà, di ciascuna vicenda (compresa quella sacra), come se nulla di certo fosse più predicabile, ma solo una nebulosa di possibilità, di abbozzi, di irrealizzate varianti. Ed è in questa selva di fantasie di prossimità con l’altro, con il nostro passato e con la nostra stessa storia ormai divenutaci straniera, che il poeta sembra cercare vie di fuga rimaste interrate, uscite secondarie. Domina un’opzione estetica improntata alla sottrazione («Forme di bellezza semplificata»), fino a giungere a un osso, a un resto indistruttibile, a una reliquia dal senso incerto.
Anche i poeti amati (ad esempio Montale, Sereni, Fortini, Pagliarani, Mario Benedetti) sono citati puntualmente (come lo è la topografia milanese) e servono ad avvicinarsi a quel
quid autentico e sfuggente, che rimane.
Infine, è l’idea di un’ora tarda che si fa strada («e tutto sembra sera, solo tardissima sera»), di un essere venuti dopo, in ritardo, di non sapere se e dove ci si incontrerà di nuovo: chi e che cosa siamo stati o diventeremo.