Corriere della Sera - La Lettura
La più fatale tra le messinscene
Il coreografo Christodoulos Panayiotou porta a Milano «Dying on Stage», una narrazione multimediale intorno a Rudolf Nureyev e ad altre figure attraverso le quali si manifesta il concetto della fine: Dalida, Amy Winehouse, Pasolini...
Morire in scena, da Dalida a Rudolf Nureyev e Amy Winehouse, eroi tragici del nostro tempo. Parte dal balletto-testamento di Nureyev, La bayadère, la lezione-performance Dying on Stage che l’artista cipriota Christodoulos Panayiotou presenta in prima nazionale, il 2 aprile alla Triennale Teatro di Milano, appuntamento inserito nel programma di Miart.
In vertiginoso equilibrio tra cronaca e vita, storia della danza e tragedia greca, telegiornali e tv, Panayiotou impagina, in 5 ore di spettacolo, un’erratica narrazione teatrale e coreografica intorno alla maschera tragica di Nureyev, scarnificato dalla malattia, ma orgogliosamente in scena tra i suoi ballerini dell’Opéra de Paris, per gli applausi finali della sua versione di La bayadère, al debutto assoluto al Palais Garnier nell’ottobre 1992: le immagini che ne denunciavano la fine imminente (sarebbe scomparso a 54 anni per l’Aids solo tre mesi dopo, il 6 gennaio 1993, nella capitale francese) fecero il giro dei telegiornali del mondo.
Racconta Panayiotou a «la Lettura»: «La bayadère è uno dei riferimenti di una più ampia costruzione di pensieri che affrontano il concetto di “ironia tragica” nella prima parte di Dying on Stage. L’ironia tragica è un concetto filosofico che esplora le emozioni che proviamo quando sappiamo che le azioni dei nostri eroi li porteranno a una morte certa, ma allo stesso tempo ci sentiamo incapaci di salvarli. In quel contesto, la prima de La bayadère all’Opéra di Parigi nel 1992 è stata per me uno dei punti di partenza del tentativo di riflettere su un certo disturbo nella triangolazione viziosa tra spettatore, interprete e personaggio. La protagodra, nista del balletto Nikiya che agonizza sul palco e Nureyev che muore mentre crea la coreografia del ruolo della baiadera è un monumento potente di questa serie di complicazioni».
Proprio La bayadère (creata originariamente nel 1877 da Marius Petipa al Teatro imperiale Bolshoi Kammeny di San Pietroburgo) è entrata a sorpresa, pochi giorni fa, nel vortice delle cronache dell’invasione russa dell’Ucraina: al Teatro dell’Opera del Donbass, la serpentina disegnata dalle ballerine nel fantasmatico Regno delle Ombre del terzo atto ha assunto la forma di una spigolosa «Z» (inquadrata dall’alto e postata su Instagram sul sito del Teatro di Donetsk), inneggiante all’esercito di Vladimir Putin. A proposito di questa operazione grottesca di propaganda filorussa, Panayiotou dice seccamente: «Penso sia assolutamente orribile», anche se esclude che i classici possano diventare veicolo di messaggi subliminali. «Non credo che ci siano narrazioni nascoste nei classici, La bayadère inclusa. Se ci fossero, bisognerebbe presupporre che ci siano narrazioni specifiche nelle opere d’arte, il che significherebbe che queste narrazioni sono predeterminate e atemporali. Al contrario — chiarisce il coreografo — La bayadère costituisce un classico proprio perché rimane aperto all’interpretazione finché si collega e risuona con le nostre esperienze contemporanee, anche se ciò si ottiene attraverso la regressione o uno sguardo rivolto all’indietro. Quindi, se mi chiede se vedo nel terzo atto spettrale di La bayadère una certa metafora delle nostre esperienze contemporanee, rispondo di sì. È così, almeno per me».
Nella pratica artistica di Panayiotou, l’approccio del ricercatore e quello del coreografo si incrociano, così come nella sua formazione si intrecciano danza e arti performative, coltivate a Lione e Lonin parallelo con gli studi di antropologia. Da qui il carattere polimorfico delle sue opere — presentate al Musée d’Orsay di Parigi, al Camden Arts Center di Londra, al Moderna Museet di Stoccolma — dove si mescolano scultura, pittura, video, fotografia, interventi architettonici e performance, riflessioni su varie forme di relazioni di potere e di scambio.
Nel 2015, Panayiotou ha rappresentato Cipro alla Biennale di Venezia. In Dying on Stage, l’artista quarantaquattrenne, attivo tra Parigi e la natale Limassol, siede a un tavolo sul palco, mentre alle sue spalle scorrono sullo schermo le immagini: una quarantina di frammenti video, estratti di spettacolo e di show televisivi, sul tema della morte in scena. Scorrono le immagini delle eroine tragiche della musica Dalida (che canta, in un caleidoscopio di versioni, la sua canzone Je suis malade) e Amy Winehouse, di Pier Paolo Pasolini, di Alessandra Ferri in un video su YouTube mentre interpreta la scena del crepacuore di Giselle, di Jesse Norman, la cui voce potente scolpisce il lutto di Didone, per arrivare al ritratto di Emma Livry, la ballerina dell’Ottocento, allieva della mitica Maria Taglioni, che si spense, ad appena 21 anni, dopo 8 mesi di agonia per essersi incendiata il tutù con le lampade a gas del palco.
In un gioco di libere associazioni che mescolano storia della danza, tragedia greca, telegiornali e tv, Panayiotou riflette sull’impossibilità o meno di rappresentare la morte in scena: «Seguo una serie di associazioni piuttosto algoritmiche, proprio come funzionano le nostre esperienze online. Una cosa tira l’altra, dal “basso” all’“alto”. In effetti, non direi che sia impossibile rappresentare la morte in scena. C’è una lunga tradizione di tentativi in tal senso, sulla quale riflette Dying on Stage. È la morte in sé che resta un’impossibilità per i vivi».
Panayiotou scandaglia il tema della fine esplorandone il senso letterale, metaforico, simbolico. In Dying on Stage — che ha presentato in molti luoghi, dal Centre Pompidou al Festival d’Automne, da Performa a New York al Centro culturale Onassis di Atene — l’artista stratifica i contenuti anno dopo anno in una collezione di archivi, in una rimessa in gioco che impatta con la vita stessa dell’artista: «È un esercizio aperto, che si aggiorna ogni anno al mio compleanno, con nuove e vecchie notizie. Viene anche costantemente riorganizzato quando lo eseguo pubblicamente», spiega.
Un flusso di coscienza lungo 5 ore, nel quale si inserisce Jean Capeille — danzatore con studi nella sezione contemporanea del Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza e in storia dell’arte alla Sorbona di Parigi — invitato dall’autore a eseguire sul palco alcuni passi virtuosistici. Nel sondare l’illusione della scena, alcune immagini durano più di altre, collidono con altri frammenti che chiedono di essere letti con occhi nuovi mentre l’artista si prende tempo per digressioni e azzardi interpretativi: una sequenza del film Gli uomini preferiscono le bionde si accompagna al ricordo della scoperta, da parte di Panayiotou, del concetto di ironia tragica. Nel corso delle 5 ore, il pubblico sarà libero di entrare e uscire dalla sala, anche se l’artista avverte: «La lezione-spettacolo segue una serie di riflessioni specifiche e strutturate che non invitano il pubblico ad andare e venire. Detto ciò, non vieterei mai allo spettatore di alzarsi e tornare». L’improvvisazione è solo una variabile in gioco: «In una certa misura c’è sempre. Il testo viene eseguito com’è stato scritto, i pensieri emergono e le idee vengono mescolate».