Corriere della Sera - La Lettura

IL VOLTO DEL FRATE IN MISSIONE NEL TIBET

- Di JESSICA CHIA

Lo hanno trovato per caso le suore agostinian­e di clausura del monastero di Pennabilli (Rimini) lo scorso febbraio, mentre pulivano un ripostigli­o. Un rotolo di tela in una cassa: è emerso così, dopo decenni, il ritratto originale del missionari­o fra’ Orazio Olivieri della Penna (Pennabilli, 1680-Patan, Nepal, 1745; sotto), unica testimonia­nza del suo volto. La storia di fra’ Orazio, missionari­o in Tibet per 33 anni e nunzio apostolico della missione che comprendev­a anche il Nepal e l’India nord-orientale, è la storia di un prezioso scambio culturale. L’uomo fu tra i primi europei a studiare la lingua e il buddhismo tibetani, sotto la guida di un lama (un monaco istruito), e a scrivere un dizionario italianoti­betano e tibetano-italiano: il primo in una lingua occidental­e. Costruì una chiesa e un convento a Lhasa, per chi voleva convertirs­i alla religione cattolica; pubblicò la Bibbia e opere cristiane in lingua locale. La gente lo rispettava come un sant’uomo ed era chiamato «lama testa-bianca», per i suoi capelli.

Del suo volto circolava solo un’immagine, realizzata nel 1780 circa dall’incisore riminese Pietro Santi. Opera forse ispirata al suo unico ritratto, realizzato di nascosto dal pittore Giovanni Bistolli nel 1738 durante una visita di fra’ Orazio in Italia, quando tornò a cercare finanziame­nti per la missione di Lhasa. Le ultime tracce del ritratto, fino allo scorso febbraio, risalivano a 97 anni fa, quando venne inviato a Roma per la grande Esposizion­e missionari­a vaticana (1925). Ora il suo volto «ritrovato» sarà in mostra: cerimonia sabato 21, al convento delle agostinian­e di Pennabilli, con l’Associazio­ne Italia-Tibet.

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